Tre aspetti controversi della carriera di Danny Ainge

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Copertina di Sebastiano Barban

La sconfitta al primo turno di playoff contro i Brooklyn Nets ha segnato per certi versi la fine di un’era per i Boston Celtics. Non tanto per l’epilogo sul campo, piuttosto prevedibile, quanto per le dinamiche societarie: Daniel Ray Ainge, dopo 14 anni da General Manager e 18 da President of Basketball Operations, lascia i Boston Celtics.

Danny Boy, che da giocatore ha vinto per due volte l’anello proprio con la maglia biancoverde, è stato negli ultimi anni uno dei dirigenti più noti e riconoscibili del panorama NBA, con una reputazione da Arsenio Lupin tale da mandare nel panico gli altri GM per alcune richieste all’interno delle trade.

Nella memoria degli appassionati rimarranno sicuramente i due suoi movimenti più celebri: gli acquisti di Ray Allen e Kevin Garnett nell’estate del 2007, che fruttarono ai Celtics la vittoria del campionato 2007-08, e la cessione dello stesso Garnett e di Paul Pierce ai Brooklyn Nets nel 2013 per una serie infinita di scelte al draft, uno degli scambi più squilibrati della storia della NBA.

Nonostante tutto ciò, Ainge lascia la lega con anche un discreto numero di detrattori, che soprattutto negli ultimi anni lo hanno accusato di eccessivo immobilismo e di non aver sfruttato al meglio tutto il capitale di asset accumulato dalla trade con Brooklyn (curioso che siano stati proprio i Nets a sancire la fine di Danny, no?). La definizione più accurata ce la fornisce direttamente un illustre membro della redazione:

Danny Ainge ha nuotato soltanto dove toccava.

Emiliano Naiaretti

In larga parte si tratta di una questione di scuole di pensiero, ma è innegabile che nella carriera di Ainge si sono conseguite, di fianco ad alcuni indiscutibili trionfi, alcune zone d’ombra annose da valutare ed analizzare.

1. Il paradosso di Yabusele

Mi affido di nuovo a geniali intuizioni della nostra redazione per dare un nome alla surreale situazione in cui si è trovato il nostro caro Danny in alcuni dei draft da lui condotti. Siamo nel 2015, anno di ingresso nella NBA di ragazzoni come Karl-Anthony Towns e Kristaps Porziņģis rispettivamente alla scelta #1 e #4.

I Celtics scelgono molto più in basso, addirittura fuori dalla lottery, ma Ainge si è preso una sbandata bella e buona, a livello professionale, per Justise Winslow, ala da Duke University. L’offerta recapitata agli Charlotte Hornets, detentori della nona scelta assoluta, è di quelle pesanti: Danny è disposto ad offrire ben quattro scelte al primo giro, tra le sue e quelle di Brooklyn.

Gli Hornets rifiutano, ma nonostante le sue convinzioni ad Ainge non sembra essere andata così male: le carriere di Winslow e Terry Rozier, preso alla 16, avranno parabole tutto sommato simili, con fugaci momenti di gloria ma niente per cui strapparsi i capelli nel complesso.

Passa però un anno e si torna al Barclays Center di Brooklyn (strano luogo, no?) a cercare di pescare il qualche giovane prodigio. I Celtics hanno tre scelte: la #3 dei Nets, la #16 dei Mavericks e la loro #23. Situazione idilliaca in apparenza, con tante possibilità anche in sede di scambi. C’è solo un piccolo problema: Boston ha già troppi posti a roster occupati da contratti garantiti.

Per cui, dopo l’ottima scelta di Jaylen Brown alla numero 3, Ainge – non avendo imbastito alcuno scambio – è costretto a scegliere due giocatori con cui attuare il meccanismo di stash, tipicamente utilizzato per prospetti europei un po’ acerbi, ovvero lasciarli almeno un altro anno nelle loro squadre di appartenenza. Boston si porta a casa quindi il francese Guerschon Yabusele e il croato Ante Žižić, con scelte probabilmente molto più alte del loro valore, e lascia per strada, tra gli altri, Caris LeVert, Pascal Siakam e Dejounte Murray.

Niente di trascendentale, per carità, ma è un esempio piuttosto esplicativo di come Ainge abbia spesso gestito male il suo immenso potenziale in sede di draft. Yabusele giocherà per un paio d’anni ai Celtics da comprimario, mentre Zizic non vestirà la maglia biancoverde nemmeno per un minuto e verrà inserito nello scambio per Kyrie Irving, finendo per disputare tre stagioni piuttosto anonime a Cleveland.

Se pensate che i due rappresentino un caso isolato vi sfido a un gioco. Riuscite a ricordarvi anche vagamente più di 2 nomi di questa lista?

  • James Young
  • Jordan Mickey
  • Marcus Thornton
  • R.J. Hunter
  • Demetrius Jackson
  • Ben Bentil
  • Abdel Nader
  • Kadeem Allen
  • Jabari Bird

No, non sono nomi di fantasia creati da NBA 2K quando generate le classi Draft, ma un breve sommario di tutti giocatori selezionati da Boston tra il 2013 ed il 2017, esclusi i giocatori già citati e quelli che non si chiamino Smart, Brown o Tatum.

Inutile star qui ad elencare tutte le alternative possibili con le stesse scelte, anche perché ogni GM ha i suoi scheletri nell’ armadio, ma la poca accuratezza nel selezionare i giocatori non da lottery è lampante, anche se negli ultimi anni Robert Williams, Grant Williams e Payton Pritchard hanno reso un po’ più rosea la situazione. Immaginate come sarebbe potuta andare se Boston fosse riuscita a sviluppare anche solo due buoni giocatori da rotazione ai playoff da questo elenco infinito di scelte…

2. “Almost traded for…”

…o, in alternativa, a utilizzarle per qualcosa di più grande. Ebbene sì, bisogna tornare con la mente a quel sempreverde tormentone di casa Celtics: “Bello il gioco corale di Stevens, ma senza una stella…”. La tanto agognata superstar, il leader in grado di far fare a Boston quel passo in più e riportare finalmente a casa il Larry O’Brien Trophy. Tanti, tantissimi gli esempi di All-Star finiti per un motivo o per un altro finiti sul mercato e per un motivo o per un altro spediti ovunque… tranne che nel Massachussets.

Possiamo perdonare Danny per quanto riguarda Jimmy Butler, su cui ai tempi di Bulls e Timberwolves c’era ancora qualche dubbio, e Kawhi Leonard, che non offriva nessuna garanzia di rifirma con solo un anno di contratto rimasto. Con uno sforzo di benevolenza si può persino chiudere un occhio per quanto riguarda Anthony Davis, visto che è obiettivamente difficile lamentarsi di quanto fatto finora da Jayson Tatum, come anche di ciò che promette in futuro.

Impossibile invece capire le esitazioni nei confronti di Paul George e James Harden. Per quanto riguarda PG, le voci dicono che Ainge si rifiutò di includere nello scambio la prima scelta dei Nets del 2018: un Draft corposo, ricco di talento, quello con Luka Dončić e Trae Young in testa e tantissimi altri ottimi giocatori dietro, da cui Boston si portò via…Robert Williams alla 27 e basta.

Già, perché un anno dopo quella scelta, già discretamente svalutata, venne utilizzata per arrivare a Irving e spesa dai Cleveland Cavaliers per Collin Sexton, ottimo realizzatore ma poco altro. Un gran peccato, visto quanto avrebbe fatto comodo un giocatore versatile come George nel sistema di Stevens.

Parlando di Harden, invece, lo stesso Ainge ammetterà di aver trovato il prezzo troppo alto. Certo, un pacchetto composto da Brown, Smart e un numero imprecisato di scelte non è un prezzo di saldo, ma visto quanto fatto da The Beard negli anni siamo proprio sicuri che in coppia con Tatum non sarebbe bastato a provare a dare finalmente l’assalto a quell’anello che i tifosi di Boston agognano ormai più di Gollum? Nel frattempo, indovinate quale squadra ha deciso di prendersi il “rischio” e mettersi in casa Harden?

3. Il trattamento delle stelle

Non è del tutto corretto definire i Celtics del dopo Big Three una squadra senza stelle. Lo è stato, almeno per certi versi, Isaiah Thomas, lo doveva essere lo sfortunato Gordon Hayward e ci ha provato, con poca fortuna, Kyrie Irving. Qual è il comune denominatore tra queste storie? La mancanza di un lieto fine.

Isaiah Thomas era arrivato a Boston abbastanza in sordina, dopo tre buone stagioni con i Kings e una brevissima esperienza a Phoenix. Il piccolo grande Isaiah esplode letteralmente nel Massachussets, con il culmine in una Regular Season 2016-17 in cui si era parlato addirittura di MVP. Le sue difficoltà in sede di playoff erano sotto gli occhi di tutti ed era prevedibile che Thomas stesse tenendo un rendimento insostenibile sul lungo periodo, ma il folletto con il numero 4 era diventato l’idolo del TD Garden e con le sue giocate aveva trascinato i Celtics alle Finali di Conference per la prima volta dal 2012.

La mossa di Ainge fu fredda e spietata, ma ineccepibile da un punto di vista squisitamente tecnico: Irving era un giocatore decisamente superiore a Thomas, più pronto (almeno sulla carta) a guidare la squadra al titolo da primo violino e acquistarlo significava anche toglierlo ai feroci rivali di Cleveland. Rimane il dolore per vedere scaricato brutalmente un giocatore che così tanto aveva fatto per la maglia biancoverde; negli anni sono stati scritti fiumi di parole a riguardo, con svariate congetture su come questa mossa avesse fatto calare a picco la volontà di molti giocatori di scegliere Boston come meta in free agency.

Uncle Drew e Gordon Hayward, arrivati insieme nell’estate 2017, avrebbero dovuto rappresentare di fatto la svolta. Non sapremo mai come sarebbe andata senza quel maledetto infortunio che mise fuori gioco Hayward, il pupillo di Stevens, dopo tre minuti della prima gara della stagione: ciò che è certo è che per nessuno dei due l’avventura terminò nel migliore dei modi. Il rapporto tra Irving e i tifosi di Boston è storia recentissima ed è la conseguenza di un addio in cui Kyrie se ne andò sbattendo la porta dopo due anni a tutti gli effetti fallimentari.

Hayward, invece, ha lavorato sodo per riuscire a tornare in campo ad alti livelli, non raggiungendo più i picchi di Utah ma costituendo un pezzo importante della rotazione nel 2019 e nel 2020. La decisione di salutarlo nel corso della scorsa estate non è stata un’eresia, soprattutto pensando ai 27 milioni di dollari annuali previsti dal contratto che pesavano come un macigno, ma l’aver ottenuto unicamente una enorme trade exception utilizzata poi per Evan Fournier sembra un po’ poco.

Oltretutto, pare che fosse praticamente già tutto fatto con i Pacers, che avrebbero ceduto ai Celtics Myles Turner, utilissimo per colmare il buco sotto canestro, e Doug McDermott, tiratore di cui i Celtics avevano decisamente bisogno. Un ottimo affare a posteriori, saltato però per l’insistenza di Ainge a voler inserire a tutti i costi anche uno tra Oladipo e Warren, con Indiana che rifiuta e Boston che rimane col cerino in mano.

Tre situazioni profondamente diverse, ma che dimostrano come Ainge, oltre a non essere stato in grado di portare stelle da fuori, sia stato anche poco scaltro nel trattenere i giocatori di spicco già presenti a roster (pensiamo anche ad Al Horford). In conclusione, esiste una versione definitiva della storia che ci permetta di collocare Ainge tra i GM “buoni” o in quelli “cattivi”? Decisamente no: Danny è stato un personaggio estremamente complesso ed affascinante, che ha segnato la storia recente dei Celtics e dell’intera NBA.

Il suo approccio degli ultimi anni, ovvero il portare avanti scambi solo se convinto che siano estremamente vantaggiosi, si è rivelato un’arma a doppio taglio, che ci ha permesso di capire che anche l’uomo che ha composto i Big Three, rapinato Mikhail Prokhorov e scelto Tatum e Brown al Draft ha alcuni lati oscuri non indifferenti. Per fortuna, però, il mondo NBA è spesso fatto di sfumature e non lo si può vedere o bianco o nero. Chissà poi perché questi due colori mi ricordano qualcosa…

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Enrico Bussetti
Vive per il basket da quando era alto meno della palla. Resosi conto di difettare lievemente in quanto a talento, rimedia arbitrando e seguendo giornalmente l'NBA, con i Mavericks come unica fede.