Cosa pensiamo di Rudy Gobert ai Timberwolves

Gobert Timberwolves
Copertina di Matia Di Vito

Con una mossa che per qualche ora ha messo in secondo piano il terremoto causato dalla richiesta di scambio di Kevin Durant, i Minnesota Timberwolves hanno sorprendentemente deciso di offrire uno dei pacchetti più corposi della storia per accaparrarsi le prestazioni di Rudy Gobert, in uscita dagli Utah Jazz dopo nove stagioni e tre titoli di Defensive Player of the Year ma anche tante delusioni cocenti ai playoff.

Verso la ridente Salt Lake City – almeno per il momento – si dirigono infatti Patrick Beverley, Jarred Vanderbilt, Malik Beasley, Walker Kessler, Leandro Bolmaro e una quantità gargantuesca di scelte, con tre prime non protette (2023, 2025 e 2027), una protetta top 5 (2029) e uno swap (2026). Danny Ainge e il suo staff cominciano così il processo di retooling del roster, scommettendo contro la scelta di Tim Connelly e dotandosi di asset per plasmare la squadra attorno a Donovan Mitchell.

Andiamo quindi ad analizzare questo scambio dalle prospettive di entrambe le squadre coinvolte, cominciando da chi Gobert l’ha preso e concludendo con chi l’ha lasciato andare (a peso d’oro).

La trade dal lato Timberwolves

Daniele Sorato: Che dire? Non vedo proprio cosa potrebbe andare storto nel mettere vicini due lunghi non particolarmente mobili che hanno dimostrato di avere gravi limiti specifici ai playoff, ignorare completamente i modelli di successo nella NBA dell’ultimo decennio, privarti dei due migliori difensori perimetrali a roster e in tutto ciò legare a questa mossa il futuro a breve, medio e lungo termine della franchigia. Bene, no?

I dubbi legati a questo scambio sono moltissimi, forse anche più dei dollari (72 milioni, per la precisione) che i Timberwolves pagheranno il prossimo anno al proprio frontcourt titolare. Questa mossa va sostanzialmente ad azzerare i margini di errore e di manovra delle prossime due o tre stagioni per scommettere su un gruppo che non dà garanzie di risultati veramente soddisfacenti nemmeno in regular season, data la concorrenza feroce che ci sarà nella Western Conference in futuro.

Gobert è uno dei difensori migliori di sempre sulle 82 partite e ha dimostrato di poter elevare a livelli impensabili dei quintetti composti da lui e altri quattro mormoni reclutati per strada nel prepartita, ma una parte dei suoi problemi ai playoff nasceva dalla totale mancanza di compagni che potessero offrire qualche tipo di resistenza sul point of attack. Scambiando Patrick Beverley si perde non solo l’unica guardia veramente abile nella propria metà campo, ma anche l’unico giocatore funzionale alla drop coverage che per forza di cose verrà adottata.

La dirigenza ha deciso di affidarsi completamente alla crescita di Anthony Edwards – il quale però basa le sue fortune difensive sugli istinti e sull’atletismo, non sul contenimento e la disciplina che la drop richiede – e soprattutto di Jaden McDaniels, che secondo i report ha rappresentato l’oggetto del contendere tra i due front office, con Danny Ainge che spingeva per includerlo e Tim Connelly che ha deciso di renderlo sostanzialmente intoccabile.

L’occhio cade poi sulla convivenza tra Towns – freschissimo di estensione quadriennale – e Gobert, due centri “veri” che difficilmente sembrano compatibili con la direzione che la NBA ha preso nel corso dell’ultimo decennio abbondante. La presa del francese – che secondo diverse fonti è stata approvata con entusiasmo dallo stesso KAT – serve in parte a coprire alcuni dei punti deboli più limitanti del lungo dominicano, in primis la mancanza di rim protection, e andrà a risolvere quasi tutti i problemi che l’anno scorso hanno portato all’eliminazione contro i Grizzlies, ma verosimilmente ne creerà altri.

Per quanto Chris Finch sicuramente sceglierà lo stagger – in parole povere, mantenere il più possibile uno dei due in campo mentre l’altro è in panchina e viceversa – dei minuti dei suoi lunghi, Gobert e Towns dovranno giocare almeno una dozzina di minuti a partita insieme in regular season, un numero destinato a salire ai playoff. Il secondo sarà costretto a rincorrere i 4 avversari sul perimetro, compito finora svolto saltuariamente e con risultati altalenanti, mentre il primo continuerà a dimostrare i suoi limiti contro gli attacchi cinque-fuori.

I dubbi sulla convivenza tra Towns e Gobert sono gli stessi che aleggiavano su un possibile utilizzo di Walker Kessler insieme al #32 di Minnesota, dubbi che avevamo già esplicitato e analizzato poche settimane fa; il problema è che se quella di Kessler poteva sembrare una scelta azzardata ma comunque dai costi e rischi limitati, scommettere buona parte del futuro della franchigia sulla stessa idea senza garanzie di successo sembra quantomeno avventato.

Questa considerazione ci aiuta a introdurre il discorso principale e parlare del branco di elefanti nello sgabuzzino: il valore che Connelly e soci hanno attribuito a Gobert e soprattutto il prezzo che sono stati disposti a pagare. I Timberwolves hanno scambiato tre role player estremamente utili alla causa e con valore di mercato positivo (Beverley è in scadenza, Beasley e Vanderbilt hanno una team option nel 2024), cinque prime scelte (funzionalmente ha senso conteggiare Kessler come una di queste), uno swap e Bolmaro, con cui verosimilmente sul mercato si possono ricavare almeno due seconde.

È un prezzo esorbitante per un giocatore così particolare come Gobert, che ai massimi livelli ha bisogno di determinate condizioni per esprimersi al meglio e che porta comunque con sé diversi interrogativi, e soprattutto è un pacchetto che lascia scoperti alcuni punti nevralgici che le squadre avversarie sapranno sfruttare a proprio vantaggio, come la già citata difesa sulla palla.

Come sempre sarà il campo a dare il giudizio sovrano e, come spesso accade, in retrospettiva i commenti a caldo come questo sembreranno troppo sbilanciati. Personalmente però, nonostante la grande fiducia che ripongo in Coach Finch e la sua capacità di trovare una quadra anche dove sembra impossibile, dubito che questo esperimento funzionerà davvero e questa non è decisamente la mossa che avrei preferito per andare all-in.

Questo scambio a mio parere rappresenta una valutazione errata da parte dei Timberwolves, soprattutto a livello di costo-opportunità in chiave futura, e un rischio non calcolato adeguatamente da Connelly e il suo staff.

La trade dal lato Jazz

Alexandros Moussas: L’aria era diventata irrespirabile a Salt Lake City a causa della tossicità della coppia Mitchell-Gobert, e Utah aveva bisogno di una scossa dopo le ultime prestazioni. Uno dei due doveva partire, e giustamente i Jazz hanno mosso il più anziano dei due per poterne massimizzare il valore. Non più tardi di venerdì pomeriggio, alla luce delle situazioni di Atlanta e Charlotte, non sembrava facile poter trovare un acquirente per il francese. Dato che vi erano pochi interessati, riuscire a raggranellare quattro prime scelte e uno swap è quanto di meglio Utah potesse chiedere.

I giocatori che arrivano da Minneapolis sono altamente secondari in questo scambio. Beverley probabilmente non rimarrà a lungo (di sicuro non più di un anno), e si inserisce in una rotazione al momento fin troppo piena di giocatori: oltre a lui, tra le guardie si possono contare anche Mitchell, Conley, Clarkson, Butler, Alexander-Walker, Beasley e Bolmaro. Pare evidente come di questi almeno un paio siano di troppo, motivo per cui è realistico attendersi ulteriori movimenti da parte dei Jazz.

Tolto Beverley, dovendo scommettere su un altro nome, è probabile che Ainge e compagnia tenteranno di scambiare Conley e in seconda battuta Beasley. Personalmente, spero vivamente che Butler possa vedere un incremento del suo minutaggio rispetto allo scorso anno, cosa che ad oggi pare tutt’altro che scontata.

Tra i lunghi, Vanderbilt è un’ottima acquisizione che mette al servizio dei Jazz delle capacità atletiche che non si vedevano nello Utah dai tempi di Millsap; in particolare, pare sposarsi perfettamente con le abilità di Bogdanović. Per quanto invece non sia un fan di Kessler, il fatto che sia a costo controllato per i prossimi quattro anni lo rende comunque una presa positiva: probabilmente i Jazz dovranno fare ancora qualche movimento nel reparto, così da riempire il vuoto lasciato da un giocatore che il reparto lo faceva da solo.

Se tanto la rosa pare completamente sbilanciata verso gli esterni, non è chiaro nemmeno quale possa essere la direzione nel breve periodo di questo progetto: puntare ai playoff o continuare ad immagazzinare scelte per progettare meglio il futuro? Domanda alla quale si avrà una risposta nei prossimi giorni.

Se Ainge fosse intenzionato a mantenere un minimo di competitività per accontentare Mitchell, sarebbe necessario prendere un centro che possa tenere il campo per 30 minuti e allungare la rotazione delle ali che ad oggi, con la partenza di O’Neale, è (ancora) ridotta all’osso. Per fare ciò, i possibili sacrificati sono Conley, Beasley e Clarkson. Cosa si possa ricavare da questi? Difficile a dirsi.

Se invece Ainge volesse continuare a fare tabula rasa, il prossimo tassello sarebbe lo stesso Mitchell. Chi potrebbe avere i mezzi per un’offerta degna per un All-Star di 26 anni? Vale veramente la pena precipitarsi in un ulteriore scambio in pochi giorni dopo anni di relativo immobilismo? D’altro canto, dove può arrivare un progetto tecnico incentrato su Mitchell? Difficile capire quale sia il momento perfetto per poter effettuare un’operazione del genere.

Di certo, Mitchell difficilmente può essere felice di giocare in una squadra senza prospettive proprio nelle stagioni del suo peak atletico e sportivo. Che sia a Utah o altrove, pretenderà un ambiente competitivo. Lo scambio di Gobert ha fatto partire un conto alla rovescia riguardante il futuro di Donovan e dei Jazz, che terminerà solo quando la dirigenza avrà messo tutte le carte sul tavolo, però di certo questa sarà l’ultima volta che il destino di Gobert interferirà con quello di Mitchell.

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Daniele Sorato
Segue (suo malgrado) i Minnesota Timberwolves mentre nei ritagli di tempo viaggia, colleziona dischi e talvolta studia. Odia parlare di sé in terza persona e sicuramente non potrà mai guadagnarsi da vivere scrivendo bio.
Alexandros Moussas
Alla tenera età di 9 anni, mio zio mi fece scoprire il basket NBA, facendomi guardare con lui le finali del 98. Con Tavcar nelle orecchie e Micheal Jordan ad alzare il trofeo, mi innamorai dei perdenti, gli Utah Jazz. Da quel momento, nulla è cambiato. Io continuo a tifarli, e loro continuano a non vincere.