Preview Warriors-Celtics 2021/22: vecchie e nuove dinastie

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Copertina di Nicolò Bedaglia

Quella tra Golden State Warriors e Boston Celtics, è probabilmente la miglior finale che la NBA potesse sperare. Almeno giunti a questo punto.

Da un punto di vista di mediatico, le superstars non mancano. E quindi anche la narrativa è più che salva, anzi, è viva e vegeta. Pensate che sia una roba di poco conto? Beh, nel caso probabilmente vi sbagliate.

La conclusione della tanto hashtaggata stagione numero 75, non poteva veder incrocio più storico in effetti. Sia i Celtics che i Warriors (ai tempi, a Philadelphia) erano infatti presenti – tra le undici squadre fondatrici, che presero parte alla stagione 1946/47. La prima di sempre, con la lega che ancora si chiamava Basketball Association of America. E che tre anni dopo avrebbe assunto il nome con cui la appelliamo ancora oggi, NBA in sigla.

Certo se Golden State avesse la meglio nelle Finals 2022, il ricorso storico sarebbe preciso, visto che furono anche la franchigia vincitrice in quel campionato lì. Il numero uno di settantacinque.
Se invece il Larry O’Brien Trophy fosse destinato a Boston, beh si tratterebbe del diciottesimo assoluto, e farebbe dei Celtics la franchigia più vincente del lotto, ad oggi e di sempre. 

Oltretutto, la scontro tra le due a questo livello è accade per la seconda volta. La prima, nel 1963/64. Ed i Warriors si erano già trasferiti da Philadelphia a San Francisco. Tanto per favorir ancor meglio suggestioni e rimembranze, erano i Celtics di coach Auerbach, con John Havlicek, Sam Jones, Tom Heinsohn e soprattutto Bill Russell. Dall’altra parte, manco a dirlo, c’era un Wilt Chamberlain da 36,9 punti per gara e 22.3 rimbalzi in stagione.  

Inutile dire che dei nomi citati, l’unico ancora in questa dimensione è quello a cui è intitolato il premo di MVP delle Finals. Chissà se lo vedremo in carne ed ossa a presenziare alla premiazione.

Proprio partendo da lui – decano assoluto e custode della memoria più profonda legata alla NBA – le versioni attuali di queste due squadre sono figlie di storie interessanti e per certi versi drammatiche.
Ad inizio stagione, difficilissimo pronosticarle insieme all’ultimo atto. Non era scontato che il ritorno di Klay Thompson dopo una convalescenza infinita (e due infortuni spacca carriera) potesse terminare alle Finals, con il nucleo storico di uno dei gruppi più forti di sempre. Affiancato da Stephen Curry e Draymond Green, con il coach Steve Kerr al timone, ma non solo. Perché che le aggiunte recenti di Wiggins, Poole e compagnia futuribile (i rookie Kuminga e Moody in primis) potessero funzionare bene in un sistema simile, era tutt’altro che pronosticabile.

Dall’altra parte, una Boston che ha chiuso il 2021 con 17 vinte e 19 perse (ed il ventesimo offensive rating tra le trenta squadre), è risorta con l’avvento del 2022. Ben 34 vittorie nelle restanti 46 partite di regular season, 117.2 di offensive rating (secondo assoluto) e 105.2 di defensive rating (il migliore).
Hanno superato Nets, Bucks e Heat in una run playoff ad alto tasso di difficoltà. Pur provati da fastidi, recuperi da infortuni mai recuperati e dispendio energetico, appaiono quasi come in missione.
Anzi, per quanto detto sopra, sembrano la squadra del destino.

Anche se il ritorno alle Finals dei Warriors – dopo quel 2019 tragico, con gli infortuni di Durant e Thompson contro i Raptors – suona leggendario allo stesso modo.

Le peculiarità delle due squadre – così come l’approccio impresso dai coach Steve Kerr e Ime Udoka – si fondano su filosofie simili, ma con pratiche visibili piuttosto distinte. Dovute anche dagli effettivi a disposizione, e quindi dalle profondità dei roster. I matchup con i quali promuovere il tutto però, resistono ad alto tasso di spendibilità, a tutela delle singole eredità di cui sopra.

La sfida tra coppie che vede Tatum e Brown opposti agli Splash Brothers, due facilitatori per eccellenza come Smart e Green a battagliare sui ventotto metri. E poi il granitico ed immortale Hortford contro il versatile (e rinato) Wiggins, i giovani Grant e Robert Williams contro il futuribile Jordan Poole, che se avesse vinto il MIP in questa stagione non avrebbe rubato nulla.

Insomma, c’è tanto da dire e tanto da analizzare. Speriamo ci sia anche tanto da vedere – anche in materia di sfide interne nella serie – perché in conclusione ad un cammino di postseason costellato da tanti blow out e dall’uscita anzitempo di giocatori come Jokic e Durant (LeBron, neanche ha partecipato), ce lo meriteremmo anche noi. In quanto pubblico destinato a passar ancora qualche notte in bianco, o al limite, risvegli decisamente anticipati rispetto al sorger del sole.

Questione di ritmo?

Si tratta di due squadre con evidenti opposti nelle applicazioni in entrambi i lati del campo. Ma se entrambe partono da un approccio difensivo aggressivo per entrare in attacco attraverso la transizione, sono i ritmi a differire. Le preferenze dei due coach vertono agli estremi, e se guardiamo a Boston non potrebbe essere comunque altrimenti in una serie simile: lasciare l’ingresso nella motion di Kerr a velocità elevate, è sostanzialmente un suicidio.

Sembra banale dire che – rispetto alla gara singola – chi impone il suo ritmo si porta la partita a casa, ma mai come stavolta appare un fattore tanto evidente. Il problema non sta nel supportare la propria impostazione, ma renderne efficace l’applicazione in soldoni. Perché l’opposizione difensiva proposta da i due coach appare ben strutturata per limitare l’avversaria.

I Warriors hanno gli uomini da destinare in copertura singola sugli attaccanti più pericolosi di Boston, ed hanno pure le alternative. Wiggins è conclamato Tatum stopper, Klay si occuperà di Brown in avvio. Ma il recupero di Gary Payton II, e potenzialmente di Iguodala e Otto Porter Jr, offrirebbero minuti per rifiatare attraverso la second unit. In tutto questo Draymond Green può permettersi di essere più battitore libero del solito, potendosi preoccupare il giusto – almeno sulla carta – delle conseguenze dei suoi aiuti. Volendo, capace di cambiare su entrambi.

Boston, del cambio sistematico per tutti gli attori in campo, ne ha fatto il marchio per il successo difensivo stagionale. E questo non si presenta ideale per i set offensivi medi di Golden State.
Da questa parte, il Curry stopper sarà Smart, e la centralità potrebbe averla la rim protection di Robert Williams III. Il problema è che entrambi non hanno vissuto una run playoff fisicamente serena, e rischiano di pagare lo sforzo di gara 7, o meglio ancora i tre giorni di riposo sfumati nell’aver concesso agli Heat il successo nella penultima sfida del TD Garden.

Partendo da un esordio in trasferta, se Udoka riesce ad imporre il proprio tempo di gioco, Boston rischia di guadagnar un vantaggio potenziale (a patto che le percentuali reggano). Serve letteralmente abbassare i battiti della partita, impostando una difesa di attesa e strutturata, favorendo un attacco che non può prescindere dai due creator principali. Anzi, sfidar eventuali mismatch (e i più vicini ad esser tali) sarà centrale per Tatum e Brown, laddove spesso – con una circolazione tutt’altro che vertiginosa – le palle perse sono arrivate dall’incapacità dei due di attaccare il diretto avversario dal palleggio. Generando spazi per i compagni.

Per abbassare i ritmi, occorre anche vincere la partita sotto i tabelloni. Conclamato punto debole dei Warriors sulla carta, dove son riusciti a sorprendere di gara in gara durante questa postseason.
Kevon Looney diminuisce notevolmente la dinamicità di Golden State, ma offre copertura elevata e soprattutto un numero di extra possessi importante. Per quanto abbassi il pace, che non a caso differisce a vantaggio dei ragazzi di coach Kerr, per quanto emerso anche in questa postseason.

Un dato che si eleva con il quintetto small, che però non sempre può apparir funzionale contro l’hard switch che Udoka può permettersi di sostenere.

Probabile che Curry e compagni inizino le prime sfide della serie cercando di far sfogare gli avversari, battezzando chi appare meno continuo dall’arco per percentuali, concentrandosi su Tatum in quanto scorer principalmente pericoloso di Boston. Salvo alzare ritmo (e possessi) in momenti determinati, puntando a produrre strappi favoriti da possibili cali di percentuali per Boston. O da soluzioni mal costruite che un attacco tendenzialmente macchinoso come quello di Udoka – quando statico in avvio – può produrre. Evitar leziosità (e quindi palle perse) e controllar il più possibile quelle semi transizioni con cui Smart predilige l’accesso nei giochi offensivi dei suoi, può essere una chiave.
A patto di saper pungere dall’altra parte, alzando d’improvviso la velocità di esecuzione.

Se non questa Boston, chi può fermare Curry?

Forse fermare no, anche perché nella mia visione della pallacanestro attaccanti del genere un modo per fare canestro lo trovano sempre. Però vale un po’ il discorso fatto qualche settimana fa per Kyrie Irving e Kevin Durant (con Boston che di sicuro spera in esiti simili): i biancoverdi sono forse i più attrezzati in assoluto per difendere Stephen Curry.

La tattica di Boston non dovrebbe discostarsi molto da quella prevista: cambiare, cambiare e cambiare ancora, tenendo però sempre a mente i pilastri su cui si poggiano le idee dello staff di Udoka. In primo luogo, ovviamente, il classico pre-switch effettuato per consentire a Robert Williams di stare il più basso possibile. L’idea è appunto quella di farlo giocare un po’ come il libero del calcio, sempre in movimento e pronto a stoppare arrivando in corsa, per massimizzare le sue doti.

Se c’è una cosa che contro Golden State si paga magari non subito ma alla lunga è la mancanza di protezione del ferro, come Dallas ha imparato bene. Aspettiamoci di vedere TimeLord sempre accoppiato con un non tiratore.

Pensare che Boston possa difendere così tanto in drop coverage come fatto contro gli Heat è esercizio abbastanza difficile, visto e considerato che Curry, Thompson e Poole se la cavano benino nei tiri dal palleggio. C’è però da dire che Golden State gioca molti meno pick and roll di qualunque squadra Boston abbia affrontato fin qui, è anche difficile fare revisioni certe: se da un lato la presenza di Williams potrebbe funzionare da ottimo deterrente per i tanti tagli di Golden State, dall’altro c’è il rischio che a furia di cambi effettuati con l’idea di contenere sempre e comunque lo spazio per tiri dal perimetro aumenti un po’ troppo.

Probabilmente nemmeno le prime due gare della serie non saranno sufficienti a darci risposte certe: nelle Finals la ricerca dei giusti aggiustamenti diventa spasmodica e Boston è una squadra più versatile di quanto sembri in difesa. Chiaramente senza Al Horford e Grant Williams tirati a lucido non si inizia nemmeno a parlarne: saranno loro a dover occuparsi in tante situazioni del #30 quando il cronometro dei 24 secondi scenderà sotto la doppia cifra.

Per quel che riguarda le guardie questa sembra essere più la serie di Derrick White che quella di Jaylen Brown, almeno per quel che riguarda la metà campo difensiva. L’ex Spurs è grande e grosso ma soprattutto intelligente nelle letture, mentre Brown, a cui non si può dire nulla per quel che riguarda i famosi scivolamenti, tende ad avere alcune amnesie quando difende lontano dalla palla, perdendosi i tagli o dimenticando su quale uomo aiutare. La miglior squadra di sempre nel gioco senza palla sicuramente lo sa e cercherà di coglierlo in fallo il più possibile. Certo è che per quanto riguarda lo scontro “occhi negli occhi” con Curry molto, per non dire tutto, passerà dal ragazzo con il #36 di cui stiamo per parlare.

Marcus Smart contro Draymond Green

Croce e delizia della sua squadra: questo è stato, e per certi versi continua ad essere, Marcus Smart. Tante volte si è parlato di scambiarlo per qualche fantomatico pezzo grosso e altrettante volte l’ex Oklahoma State è rimasto in biancoverde, con il suo tiro ondivago e la sua difesa soffocante.

A parere di chi vi scrive, un gran bel pezzo della svolta di metà stagione dei Celtics è da attribuire proprio a Smart. Chiaro, il fatto che Tatum abbia iniziato a segnare sostanzialmente a comando non può e non deve essere dimenticato, ma la grossa spada di Damocle “Boston non ha un generale in campo affidabile” è stata rimossa proprio da colui che tante volte è stato definito come inaffidabile in cabina di regia.

Nel bene e nel male Smart resta un ago della bilancia incredibile: è visibile a occhio nudo come i Celtics appaiano una corazzata inaffondabile nelle sue giornate buone, per poi incagliarsi alla prima difficoltà quando invece ha la luna storta. In questa postseason ha avuto come al solito alti e bassi, anche a causa di condizioni fisiche non ottimali che persistono tuttora: meglio che le risolva in fretta per poter così tornare a sfiancare Curry come nessun altro sa fare.

Per come sono strutturati i Warriors le letture di “Wolverine” dovranno essere impeccabili e due buone serate al tiro in apertura potrebbero sbloccare il potenziale offensivo di Boston, dato che potrebbero evitare il trattamento che ad esempio Draymond Green ha riservato a Jalen Brunson nelle Finali di Conference.

Già, proprio l’Orso Ballerino ci offre lo spunto per un paragone scontato ma non troppo. Seppur con ruoli diversi entrambi hanno una clamorosa importanza sui due lati del campo e in generale l’anima delle due squadre passa prima di tutto da loro. Inutile soffermarsi più di tanto sulla difesa di Dray, già decantata e analizzata da anni: senza Smart Boston perderebbe tantissimo, com’è ovvio che sia, ma a livello tattico probabilmente Robert Williams e Al Horford sono ancora più importanti. Viceversa senza Green la difesa di Golden State viene privata delle sue fondamenta, della sua ragion d’essere.

In attacco, a dire il vero, Dray non sta disputando una postseason esaltante. La difesa dei Memphis Grizzlies, bravissima a causare un alto numero di palle perse, lo ha messo in difficoltà come pochissime altre volte nella carriera. Contro Dallas si è un po’ ripreso ma pare evidente come i giorni migliori in attacco per lui siano passati da un pezzo. Eppure anche a 32 anni suonati si ha la sensazione che senza di lui anche una potenza come Golden State farebbe ben poca strada. Il suo rendimento come passatore sarà messo a durissima prova da parte di una squadra che ama difendere mascherando una difesa a zona in una a uomo, chiudendo tutti gli spazi che riesce a raggiungere.

Sono due giocatori diversi, con età diverse, caratteristiche diverse e anche status diversi. Draymond è un pluriennale All-Star a differenza di Smart, ma spesso viene ancora incompreso e considerato quasi un giocatore marginale. Niente di più sbagliato: siamo pronti a scommettere che comunque vada questa serie uno dei due sarà tra i migliori nelle file dei vincitori e l’altro sul banco degli imputati per quel che riguarda i perdenti. Fino al prossimo giro di giostra, perché con loro, come ebbe a dire una volta Federico Buffa parlando di Rasheed Wallace, non è alla carta. Decidono loro, prendere o lasciare.

Pronostici

Davide: Con 116.1, l’offensive rating dei Warriors è il migliore di questa postseason. Dall’altra parte, il defensive rating dei Celtics è il migliore a 105.1 (eccezion fatta per il 102.7 dei Milwaukee Bucks).
Storicamente, un ottimo attacco ha la meglio di un’ottima difesa, almeno alla lunga.
Anche partendo da questo, e tralasciando la profondità maggiore a roster che dovrebbe favorir soluzioni superiori, Golden State mi appare favorita.
Boston è squadra che ha dimostrato di sapersene infischiare del vantaggio campo, di saper lottare e soffrire, ma anche di cadere in black out spesso farciti con errori grossolani. Mediamente una cosa che paghi contro la truppa allenata da Steve Kerr.

Certo, esistono variabili ed X Factor (una su tutti, le percentuali di un Derrick White che sarà spesso battezzato) che possono allungare una serie che si apre a molteplici opportunità.

Pronostico che difficilmente andrà oltre la sesta partita, a vantaggio di Curry e compagnia.

Enrico: pronostico davvero difficile questa volta. Se un alieno sbarcasse stasera sulla Terra e si mettesse ad analizzare i due roster, leggere dati e guardare i precedenti sono piuttosto sicuro che opterebbe per i Celtics, che hanno davvero tutte le armi per difendere contro Stephen Curry e sotto certi aspetti sono considerabili la miglior squadra del campionato.

Il problema con quegli altri è che, beh, sono i Golden State Warriors. Gli Splash Brothers, Draymond Green, la solita batteria di role players che a turno tira fuori dei piccoli capolavori, il Chase Center, “Strenght in Numbers”, Steve Kerr. La quintessenza del been there, done that, che è uscito fuori più volte soprattutto nella serie contro i Mavericks: i californiani hanno un’esperienza infinita in partite come queste, fatte di momenti chiave fondamentali.

Tocca sbilanciarsi per l’ultima volta in stagione e visti i tanti dubbi non mi resta altro che fare il gioco delle parti e contrappormi al caro Davide: 4-2 per i Boston Celtics.

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Enrico Bussetti
Vive per il basket da quando era alto meno della palla. Resosi conto di difettare lievemente in quanto a talento, rimedia arbitrando e seguendo giornalmente l'NBA, con i Mavericks come unica fede.
Davide Torelli
Nato a Montevarchi (Toscana), all' età di sette anni scopre Magic vs Michael e le Nba Finals, prima di venir rapito dai guizzi di Reign Man e giurare fedeltà eterna al basket NBA. Nel frattempo combina di tutto - scrivendo di tutto - restando comunque incensurato. Fonda il canale Youtube BIG 3 (ex NBA Week), e scrive "So Nineties, il decennio dorato dell'NBA" edito da Edizioni Ultra.