Otto Appunti NBA: dal (quasi) ritorno di Davis all’anacronismo dei Cavs

Appunti Mese NBA
Copertina di Marco D'Amato

Dalla scorsa puntata di questa rubrica è già trascorso un mese: gli infortuni cominciano ad accumularsi, si cominciano a distinguere contender e pretender e, come al solito, ogni notte succedono più cose di quanto ognuno di noi riesca a tenere traccia. Senza ulteriori indugi, dunque, partiamo con la seconda puntata di Otto Appunti NBA.

Anthony Davis è tornato (e se n’è già andato)

Sono perfettamente conscio del fatto che Anthony Davis abbia sofferto un infortunio di cui ancora sappiamo poco o nulla, se non che lo terrà lontano dai campi da gioco per almeno un mese. So anche che questo infortunio potrebbe marcare la fine delle speranze playoff dei Lakers, dato che ad Ovest sembra che nessuna delle prime dieci abbia particolare voglia di rallentare. Credo però che sia giusto fermarsi un attimo per celebrare quanto fatto da Davis nell’ultimo mese di gare, perché con buona probabilità è stata la striscia di gare più dominanti su entrambi i lati del campo che abbiamo avuto in questo inizio di stagione NBA.

Nelle dodici gare giocate nell’ultimo mese, il lungo da Kentucky ha fatto registrare 32 punti e 14 rimbalzi di media, tirando col 65% dal campo e andando in lunetta la bellezza di 11 volte a notte. La cosa più impressionante è che questa striscia non è coincisa con un periodo particolarmente fortunato al tiro, è stata semplicemente figlia di uno stato di forma pressoché perfetto, in cui agilità e forza si sono combinate per far sì che Davis avvicinasse il suo raggio di azione al ferro. Anziché accontentarsi di tiri dalla media, AD ha costantemente cercato la tabella, trovandola con una costanza rara.

La curiosità è che molte delle sue conclusioni ravvicinate derivano da pick&roll con LeBron James in cui il blocco viene portato da Davis stesso ben dentro la linea del tiro da 3 punti, una scena a cui ci eravamo ormai disabituati dai tempi dell’esplosione di Curry&co. D’altronde, se c’è un tratto che definisce la coppia James-Davis sul pick&roll è la mera forza che entrambi esprimono per i rispettivi ruoli.

Dall’altro lato del campo AD è sempre stato un netto positivo, anche nei tempi in cui l’eccessiva massa muscolare aggiunta ne aveva rallentato i movimenti e diminuito l’agilità, ma la differenza con l’impatto avuto in questa stagione si è fatto sentire. Con ogni probabilità, fino al momento dell’infortunio Davis sarebbe stato nei primi tre posti di qualsiasi votante per il premio di Defensive Player of the Year: nell’ultimo mese di gare, ha girato a 3.8 stocks per gara. La facilità con cui segue Jrue Holiday in questa azione per poi obliterare il ricordo del suo tiro dovrebbe lasciarvi una discreta impressione.

Tutti gli infortuni sono pesanti ma alcuni, per impatto sulla squadra e per via della storia personale del giocatore, sono più pesanti di altri. Se sano, Davis ha dimostrato ancora una volta di essere uno dei dieci migliori giocatori della lega. Se sarà o meno in grado di dimostrarlo a primavera inoltrata rimane tutto da vedere.

Questo JJJ può fare la differenza

Se di Davis ho appena detto che sarebbe stato sul podio di ogni votante, certo si può affermare che ad oggi il nome del Defensive Player of the Year coinciderebbe in molte schede.

La facilità con cui Jaren Jackson Jr sta rastrellando stoppate è disarmante: sono 3.3 a notte in 25 minuti di gioco nell’ultimo mese. Per capirci, sarebbero 4.4 per 36 minuti. Ve la giro in un’altra maniera: un tiro ogni nove preso dagli avversari viene stoppato da JJJ. Numeri del genere non si vedevano dai tempi di Manute Bol, ed appartengono ad un’epoca in cui farli segnare era certamente più facile dato che il gioco offensivo si spiegava più vicino al canestro. Alcune delle stoppate di JJJ in questo inizio stagione sono semplicemente senza senso: in questo caso sembra totalmente tagliato fuori dall’azione, e magicamente riesce a cancellare un tentativo da due passi di Jalen Williams.

Come accade a tutti i grandi rim protector, l’impatto che JJJ ha sulla gara non si misura unicamente in stoppate, ma anche nel numero di tentativi al ferro che gli avversari decidono di passare. Vi basti pensare che, nei minuti con Jaren Jackson Jr in campo, i Grizzlies hanno avuto un Net Rating di 101.8 nell’ultimo mese; per farvi capire quanto questo numero sia assurdo, la migliore difesa stagionale è finora quella dei Cavs, che hanno un Defensive Rating di 107.3. Tradotto: i Grizzlies con JJJ in campo concedono 5.5 punti per 100 possessi in meno della migliore difesa della lega. Abbastanza eclatante.

La cosa che però distingue Jackson da tutti i rim protector élite che abbiamo nominato in questa sezione e da quelli che sono venuti dopo, Gobert fra tutti, è la sua capacità di cambiare sul perimetro. Ritengo non sia il modo più furbo di usarlo, o comunque certamente non quello con cui può portare i maggiori benefici alla propria difesa, ma è pur sempre un vetro da rompere in caso di emergenza.

Non vedo ostacoli tra JJJ ed il premio di difensore dell’anno se non gli infortuni, problema che lo assilla da tutta la sua carriera. Non che gli infortuni siano l’unico problema a tenere Jackson lontano dal campo: i 4 falli per 36 minuti sono il miglior dato in carriera, ma rischiano ancora di essere problematici in ottica PO. Certo, al lungo di Memphis non servono troppi minuti per lasciare la sua impronta sulle gare.

Houston, abbiamo un problema

Sarò breve: chi mi segue da un po’, sa della mia ossessione per la presenza di playmaker competenti a roster nelle squadre che stanno ricostruendo. Credo che un buon playmaker sappia bilanciare le opportunità per i suoi compagni, li sappia mettere in ritmo, possa instillare nei giovani buone abitudini che, sommate, possono tradursi in vittorie. Ecco, giocate del genere non sono esattamente quello che ho in testa.

I due portatori di palla primari dei Rockets, Porter e Green, collezionano 7.2 palle perse a notte a fronte di meno di 10 assist. Sommati, si prendono circa 32 degli 88 tiri dell’intera squadra, il 36% del totale, un numero molto alto se si considera che nelle mansioni del loro lavoro c’è scritto anche “aiutare gli altri giovani nella propria curva di sviluppo“. Seriamente, cosa può fare un centro davanti ad una palla del genere?

Ritengo non ci sia nulla di strano in un giovane portatore di palla che perde tanti palloni nel muovere i suoi primi passi in NBA. Credo sia assolutamente normale: nel giro di qualche mese Jalen Green sarà perfettamente in grado di leggere la posizione delle anche di Martin molto meglio di quanto non faccia ora, e saprà distinguere la posizione di un lungo che sta rollando a canestro da uno che sta prendendo la posizione in post (perché sì, questa è l’incomprensione nella clip qui sotto).

Quello però che non ritengo normale, o perlomeno non giustificabile, è che gente pagata fior di dollari, seduta dietro ad una scrivania con tonnellate di materiale a propria disposizione per compiere scelte corrette e tutta la propria giornata a disposizione per farlo, non riesca a riconoscere dei pattern estremamente comuni alle franchigie il cui processo di ricostruzione non è andato a buon fine. Houston, abbiamo un problema: ci serve un playmaker che sappia gestire i possessi come si deve.

Brunson-Knicks, il matrimonio perfetto

Il paragrafo appena terminato mi dà il gancio perfetto per parlare degli effetti positivi che un playmaker competente può avere su una franchigia: sebbene aiutati da percentuali al tiro degli avversari non propriamente alte, i Knicks sono nel bel mezzo di una striscia di sette vittorie e sembrano una squadra conscia della propria identità. Soprattutto, sembrano una squadra che è in grado di mangiucchiare tanti punti qua e là nel corso di una partita, e lo devono principalmente al tanto chiacchierato acquisto estivo, Jalen Brunson; ad esempio, ogni qualvolta Brunson riconosce di avere un accoppiamento difensivo di suo gradimento continua ad attaccare il malcapitato fino a quando il coach avversario non lo toglie dal campo, sorte toccata a Nembhard l’altro giorno.

Come fanno tutti i bravi allenatori, Carlisle dopo un po’ di tempo (a dirla tutta, dopo un bel po’ di tempo) prova nuovamente a mettere Nembhard in campo, sperando che Brunson si sia dimenticato di quanto avesse bullizzato il suo rookie nelle fasi iniziali della gara. Primo possesso a disposizione del play da Villanova e puntualmente Brunson va a cercare Nembhard, che chiede il cambio al proprio compagno di squadra, salvo rendersi conto di essere finito su Randle e chiedere nuovamente il cambio, esitazione che Brunson non esita a punire. Spietato.

Le partite di Brunson sono fatte di una scaltrezza dietro l’altra, perché questo è l’unico modo di sopravvivere in NBA se sei alto un metro e ottanta. Brunson gioca sui margini, cerca sempre di far innervosire l’avversario, di strappare uno sfondamento o di agganciare il proprio braccio in quello del bloccante. Sono trucchetti sporchi, ma l’NBA è una giungla: mangia o vieni mangiato.

Potrete dirmi che questo stile di gioco porta a vittorie in regular season ma non si traduce in successo a primavera inoltrata, e sarei d’accordo con voi. Purtroppo però, quando si è alti un metro e ottanta le opzioni per essere un All-Star (perché sì, al momento Brunson è il giocatore più importante in una squadra che avrà almeno un All-Star, quindi mi aspetto ci sia quantomeno un’accesa discussione su chi tra lui e Randle rappresenterà New York all’ASG quest’anno) sono limitate. Brunson lo sa, e non ha paura di giocare ai limiti dello sporco? Se questa descrizione vi ricorda qualcuno, vuol dire che questo paragrafo ha ottenuto l’effetto desiderato.

Dr Scottie e Mister Barnes

OG Anunoby, Siakam, Barnes, VanVleet, Boucher, Achiuwa…una squadra con tutti questi buoni difensori dovrebbe essere, sulla carta, più che ben attrezzata per navigare le acque della Regular Season fino ad approdare placidamente ad un Defensive Rating tra i migliori dieci della lega. In realtà, nell’ultimo mese i Toronto Raptors sono stati la ventunesima difesa della lega, con un non lusinghiero Defensive Rating pari a 115.7. I motivi di questa debacle sono molti: il più evidente è la mancanza di un coordinatore vocale, di un’ancora che sappia guidare la difesa con le parole, che faccia muovere tutti come se fossero legati da un filo. In questo frangente di stagione, a soffrire della mancanza di questa figura è stata in particolare la difesa in transizione di Toronto.

Tiri aperti come quello qua sopra non sono occorrenze rare nelle gare dei Raptors: a volte ad essere scoperto è un angolo, a volte è una delle due ali.

Quando vengono commessi errori così grossolani, è impossibile puntare il dito solamente contro un giocatore: a crollare in questi casi è l’intero apparato difensivo. Detta in maniera brutta, i giocatori non sanno cosa fare in campo, le direttive non sono state chiare o, ancora peggio, non sono stati in grado di replicarle sul parquet. Ma il rendimento di un giocatore in particolare sembra essere crollato da quel lato del campo, quello del Rookie of the Year in carica, Scottie Barnes.

Per dirla alla Tom Jones, “it’s not unusual” vedere Scottie Barnes completamente sverniciato da portatori di palla anche di qualità rivedibile, come accade con Terence Davis nella clip qua sopra. Il crollo di Barnes è talemente drastico da far pensare ci sia qualche problema fisico dietro, poi però a distanza di pochi minuti Barnes è in grado di sfoderare possessi difensivi come il seguente contro Fox.

Qua Barnes non si limita a contenere Fox, arriva letteralmente prima di lui dove Fox vuole andare, è palese che le potenzialità difensive di Barnes siano rimaste intatte. La risposta credo sia da cercarsi nell’aumento di responsabilità palla in mano che Barnes ha avuto: Barnes guida l’azione per un totale di 4 minuti a partita rispetto ai 3.2 della scorsa annata, sebbene giochi due minuti in meno a notte; prende quasi due tiri in più per 100 possessi, è passato dal distribuire 4.9 assist per 100 possessi a 6.8. Insomma, Scottie Barnes sta lentamente tentando di trasformarsi in un creatore offensivo a tutto tondo, e a soffrirne non sono solo le sue prestazioni dal lato difensivo, ma anche le percentuali dal campo e la precisione nelle scelte (45% dal campo rispetto al 49% dello scorso anno, e le palle perse sono salite da 2.6 a 3.5 per 100 possessi). Per queste ragioni, “it’s not unusual” assistere a scene del genere.

Sono pochissimi i giocatori che riescono a sostenere un carico elevato in attacco continuando a fare la differenza in difesa. Scottie Barnes ha l’ambizione di entrare a far parte di quella stretta cerchia ma, se anche ce la dovesse fare, aspettatevi che il percorso sia molto accidentato, com’è normale che sia.

Jaylen Brown è un All-NBA

Il giocatore più osannato del roster dei Celtics, roster che potrebbe essere il più talentuoso dell’intera lega, è senza dubbio Jayson Tatum. La narrativa che circola attorno alla franchigia del Massachusetts rimane però quella di un talento a capo di un grande collettivo: parzialmente vero, se non fosse che in quel cast di supporto è presente un giocatore che non è esattamente uguale a tutti gli altri. Jaylen Brown sta, senza troppi se o ma, giocando una stagione da All-NBA.

Nell’ultimo mese di gare, Brown ha girato a 27+8+4, tirando col 51% dal campo, andando in lunetta quasi sei volte a notte e dando in generale l’impressione di schiacciare sul pedale solo a tratti. Brown quest’anno è parso finora molto più in controllo dei ritmi di gioco, bilanciando bene soprattutto le penetrazioni al ferro e i tiri dalla media o da tre, sebbene il suo arsenale continui ad espandersi anno dopo anno e conclusioni che fino a qualche anno sarebbero state per lui impensabili vengono oggi eseguite con estrema calma.

La cosa che più mi ha colpito di Brown quest’anno è…che non vi saprei dire con esattezza quale sia l’area del suo gioco in cui è migliorato di più. Ho guardato diverse gare in cui, senza che io me ne rendessi conto, Brown ne aveva 30 a referto con ancora qualche minuto da giocare, e questo per me è tipicamente il segnale con cui riconosco i grandi giocatori, quelli che sanno riconoscere i propri momenti nella gara senza forzarne il flusso.

Se proprio fossi costretto pistola alla tempia ad indicare un aspetto in cui i miglioramenti sono stati tangibili, probabilmente direi l’attacco in transizione, nicchia in cui Brown è diventato uno dei primissimi della lega e sfrutta un’intesa pressoché perfetta con Smart.

Fino ad ora, Boston è stata senza ombra di dubbio una delle due migliori franchigie nella lega, ma luci ed ombre che l’hanno accompagnata nella scorsa run playoff rimangono. Per superare anche l’ultimo ostacolo, è imperativo che Brown si affermi come un top20 della lega, e ad oggi sembra sulla buona strada.

Cavs, adattarsi all’anacronismo

Giocare con due lunghi nell’anno di grazia 2022 non è esattamente cosa comune, ma i Cleveland Cavaliers stanno provando ad essere una contender credibile “like it’s 1998“. I problemi principali derivanti da una scelta simile sono due: in primis, questo tipo di giocatori tende ad essere battuto facilmente dai portatori di palla, e direi che questo particolare grattacapo non preoccupa molto i Cavaliers. Qua sotto potete ammirare il meno mobile tra i due marcare senza particolari problemi l’attaccante perimetrale più pericoloso della lega (ok, Dončić non è il più veloce dei portatori di palla, ma rimane una delle marcature più toste della lega, se non la più tosta in assoluto).

Il secondo tipo di problema è legato alle spaziature in attacco: né Allen né Mobley sono tiratori rispettabili dal perimetro. Allen gioca come se ai sette metri e venticinque ci fosse scritto in grande “HIC SUNT LEONES”, mentre Mobley ci prova, ma ogni tripla che tira rappresenta una grossa vittoria per la difesa. Come fare dunque per non distruggere le spaziature e complicare le cose per Mitchell e Garland? Vero che questi problemi vengono solitamente evidenziati maggiormente in postseason, ma pare che i Cavs abbiano trovato delle soluzioni alternative, e quasi tutte fanno uso delle buone capacità di playmaking dei due lunghi: Mobley principalmente in situazioni di short roll, Allen invece dal post-alto.

Sopra potete vedere come la minaccia di una tripla dal palleggio di Mitchell, o che lui attacchi aggressivamente il raddoppio, sia sufficientemente grande da far sì che Bullock metta pressione al 45 di Cleveland. Mobley rolla a canestro, ed attira l’aiuto del difensore di Allen, che sta nel dunker spot. Mobley ha mani sufficientemente educate per trovare il compagno con un lob, quindi l’uomo di Stevens in angolo deve correre a sua volta in aiuto. Il passaggio è quasi troppo facile per uno che ha le letture di Mobley. Ma la superstrada che connette Mobley ed Allen non è a senso unico, anche il centro ex Nets sa trovare bene il proprio compagno di squadra quando questi è nel dunker spot.

Allen in particolare, benché abbia abilità da passatore inferiori a quelle del compagno, agisce spesso da valvola di sfogo, come un grande bottone rosso da premere nel caso in cui si debba ricominciare da capo. Dato che raramente il suo uomo lo segue fuori dal pitturato, si trova spesso ad avere tutto il tempo necessario per valutare qualora ci siano stati dei problemi di comunicazione nella difesa avversaria, e punirli di conseguenza.

Nella scorsa puntata di Otto Appunti abbiamo parlato di trend, di come la lega tenda ad uniformarsi: spesso ci sono buone ragioni per farlo, e lo stesso dicasi per l’ondata che ha portato a giocare con un solo vero lungo di ruolo. Ma i Cavs devono essersi chiesti perché non provare a minimizzare i danni massimizzando i vantaggi dati dalla taglia, e finora i risultati gli stanno dando ragione.

AJ Griffin, Oops he did it again

Non sono molti i rookie nella storia del gioco che possono dire di avere messo a referto due buzzer beater. Anzi, a dirla tutta ho provato a scorrere diversi nomi illustri nella mia memoria…e non ne ricordo nemmeno uno che ci sia riuscito. Nessuno, eccetto AJ Griffin: oops, he did it again.

Atlanta non è una corazzata, e tutto sommato c’era da aspettarselo, ma che un rookie riesca a ritagliarsi spazio nelle rotazioni di una squadra che gira in linea di galleggiamento con 41 vittorie in stagione non è scontato. Con i suoi quasi 27 minuti a notte, AJ Griffin è il settimo uomo di rotazione ad Atlanta, il tutto sotto un coach famoso per non offrire molte opportunità ai giovani. Griffin si è presentato al draft con la nomea di tiratore purissimo di grossa taglia, ma poco altro; tanti i dubbi sulla sua difesa, sulla sua capacità di crearsi un tiro, sulla sua lentezza (io il primo ad averli avuti). I primi mesi di gare ci stanno dicendo che Griffin è molto più che un tiratore: si muove benissimo senza palla, seppure al suo ritmo. Sa quando utilizzare un blocco e quando invece sfruttarlo al solo scopo di sviare il proprio marcatore per guadagnare qualche prezioso centimetro di vantaggio.

I giocatori come AJ Griffin tendono ad incontrare difficoltà ai playoff, principalmente perché i loro mezzi atletici li rendono molto appetibili per i portatori di palla più esperti, ma andiamo per gradi: non è comune vedere un rookie in grado di giocare così tanti minuti per una squadra che ha serie ambizioni di basket primaverile, ed è ancora più raro che questo accada per una scelta fuori dalla lottery. AJ Griffin ha già sorpreso una volta, chissà che non ci riesca ancora.

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Andrea Bandiziol
Andrea, 31 anni di Udine, è uno di quelli a cui potete scrivere se gli articoli di True Shooting vi piacciono particolarmente. Se invece non vi piacciono, potete contattare gli altri caporedattori. Ha avuto la disgrazia di innamorarsi dei Suns di Nash e di tifare Phoenix da allora.