Otto Appunti NBA: da Markkanen All-Star alla delusione Jordan Poole

Appunti NBA (2)
Copertina di Marco D'Amato

Continua la stagione NBA più incerta degli ultimi anni, e noi spettatori curiosi nell’incertezza ci sguazziamo. Partiamo subito con gli otto appunti del mese di gennaio!

1) I progressi di Santi Aldama

Non si può certo dire che, in ottica Regular Season, la rotazione dei lunghi a Memphis sia corta: tra candidati al Defensive Player of the Year come Jaren Jackson Jr, veterani di sicuro affidamento come Steven Adams e Brandon Clarke, e giovani che offrono un rendimento solido ogni volta che mettono piede in campo come Xavier Tillman, di scuse per non trovare spazio per Santi Aldama, Taylor Jenkins ne avrebbe. Eppure il lungo spagnolo ha sfiorato i 20 minuti a notte nel mese di gennaio, e non si può dire che non se li stia meritando.

Partiamo dall’aspetto più evidente nel gioco di Aldama: il ragazzo ha chiaramente un potenziale altissimo. Non ci sono molti lunghi di due metri e undici che potrebbero anche solo pensare di prendersi un tiro come quello della clip qui sopra: ci vogliono piedi da ballerina, grande equilibrio della parte superiore del corpo e tocco non indifferente. Non a caso Aldama sta tirando col 37% da 3 con un volume più che dignitoso (7 triple per 100 possessi), e se è vero che la maggior parte delle sue triple sono in catch & shoot, è altresì da notare come lo spagnolo stia migliorando nel riposizionarsi sul perimetro e quanto abbia velocizzato il rilascio.

Ma Aldama è più di un’arma offensiva: dopo un inizio di stagione che aveva sottolineato la sua difficoltà nel tenere gli avversari sul perimetro, lo spagnolo ha compiuto passi da gigante negli ultimi mesi, tanto da essere la ragione principale per cui Jenkins si sente sicuro di usare lineup con due lunghi anche nei minuti in cui i protagonisti si alzano dalla panchina.

Non solo abilità nel cambiare sul perimetro: i miglioramenti di Aldama nelle letture, uniti alla sua stazza, gli garantiscono di essere un fattore anche nella difesa sul pick&roll. Ad esempio, in questa clip prima lascia Okoro libero in ala per aiutare sul roll di Mobley, dopodiché esce sul perimetro per scoraggiare Okoro al tiro quando vede che Bane è arrivato a prevenire l’entry pass per Mobley ed infine lo lascia al momento perfetto per disturbare la linea di passaggio e bruciare il gioco dei Cavs.

Quanto visto sopra non è un caso: i tempi di Aldama nell’aiuto sono costantemente corretti.

Se ad inizio stagione ritenevo che far giocare Aldama fosse la dimostrazione di quanto Jenkins fosse attaccato alla sua idea di far giocare due lunghi, ora capisco che probabilmente mi sbagliavo.

2) Mikal Bridges, professione playmaker

La pioggia di infortuni che ha colpito i Phoenix Suns non ha molti precedenti per una contender (o presunta tale), ed il suo impatto è stato tanto più evidente nella misura in cui il roster della franchigia dell’Arizona sia corto, soprattutto in ottica Regular Season. Però, riportando la citazione più abusata di De André, “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior“: senza questa moria generale, Monty Williams non avrebbe mai dato le chiavi della macchina a Mikal Bridges.

Le run playoff degli ultimi due anni hanno evidenziato diverse lacune del roster dei Suns, ma due delle più importanti sono senza dubbio la mancanza di un terzo portatore di palla affidabile oltre a Paul e Booker (non a caso, le fortune di Phoenix sono spesso coincise con i momenti di forma migliore di Cameron Payne) e l’incapacità di andare in lunetta. Il periodo di gestione forzata della palla a cui Bridges è stato esposto ha messo in mostra le sue capacità di playmaking: sono 5 gli assist a notte fatti registrare a gennaio, alcuni dei quali tutto fuorché semplici come quelli delle prime due clip.

Molto più banalmente, la taglia di Bridges gli consente di compiere entry pass contro qualunque difensore, anche quelli più lunghi come Claxton, per sfruttare eventuali mismatch vicini al ferro per Ayton, situazioni in cui un playmaker sottodimensionato come Chris Paul non sempre trova una via d’uscita.

Unitamente ad una maggiore esposizione al gioco palla in mano, anche l’aggressività e dunque i tentativi dalla lunetta di Bridges sono aumentati, salendo a 4 a gara. Non a caso, i difensori sembrano ora rispettare maggiormente le entrate a canestro di Bridges, il che con un effetto cascata ha aperto altre linee di passaggio per il prodotto di Villanova.

In un anno in cui l’Ovest non sembra aver ancora trovato un padrone, piccoli dettagli possono fare la differenza. Al momento è complicato immaginare Phoenix uscire dalla conference, ma qualora questo accada probabilmente in parte sarà anche grazie ai miglioramenti di Bridges palla in mano.

3) How I Met Şengün 

Ne ho parlato lo scorso mese: la stagione di Houston ha assunto le sembianze più disfunzionali che un’annata di rebuilding possa avere, ed in larga parte ciò è dovuto all’assenza di un playmaker affidabile a roster. Nel marasma texano, però, si sta salvando un giocatore in particolare: Alperen Şengün. Di nuovo, cominciamo dalle cose facili: il ragazzo si lascia guardare.

Ma col turco non è una mera questione estetica, il suo gioco non è fine a se stesso: il -4.2 per 100 possessi che Houston fa registrare nei suoi minuti (più di 32 a notte) è per distacco il migliore dato a roster. So che può sembrare paradossale, ma gli altri attori protagonisti si aggirano su valori decisamente peggiori (Jalen Green -11, Kevin Porter Jr -20, ma per favore insistete ancora nel dirmi che le mosse fatte dalla dirigenza texana sono ok per una franchigia in rebuilding). Le cifre di Sengun per 100 possessi leggono 27+14+9, numeri elite che paiono ancora migliori quando accoppiati al 62% dal campo. Un gioco in post di Şengün è ormai prossimo all’essere i due punti più sicuri della lega in isolamento.

Questo non è dovuto solo agli infiniti modi di concludere attorno al ferro che Şengün mette in mostra notte dopo notte, ma è principalmente grazie alla pulizia dei movimenti nella parte basse del corpo. Il turco sta battendo tutti i record per numero di “turnaround hook shot” a notte fatti comparire nel play-by-play della lega.

Dall’altro lato del campo, Şengün ha evidenti limiti fisici che lo rendono un obiettivo privilegiato degli attacchi avversari sul perimetro. Detto ciò, il turco è un difensore perlomeno accettabile in una drop, sia per letture che per taglia e velocità delle mani. Inoltre, i suoi tempi di reazione sotto canestro a volte possono sorprendere: Şengün ha un talento nel prendere sfondamenti, ma è in grado altresì di aumentare il proprio volume in verticale in una frazione di secondo qualora l’attaccante riesca a frenare in tempo.

Tra tante scelte alte che per ora non hanno ancora dato i frutti sperati, Green e Smith su tutti (ma c’è ancora tempo perché questi giocatori si sviluppino a dovere), Houston ha molto probabilmente trovato una prima pietra attorno alla quale ricostruire le proprie fondamenta.

4) Anche Giannis è umano

Parto da una premessa: ritengo che Giannis sia il migliore giocatore dell’universo, quello che più può impattare una serie playoff. Se abbinato ad un playmaker anche solo di decente fattura, ci sono pochissime lacune nel suo gioco e i modi in cui può cambiare una partita sono virtualmente infiniti. Quel “se” però rimane, e dunque non dovrebbero stupire, e nemmeno sminuire il valore del giocatore, le difficoltà che il greco sta incontrando in attacco nella stagione in corso.

Le sei palle perse per 100 possessi sono per distacco il dato più alto in carriera, ed il rapporto assist/palle perse di poco superiore all’1 fa capire che a maggiori compiti on ball non sempre corrispondono numeri migliori in termini di assist. Pur evidenziando in passato i miglioramenti nelle letture, sono sempre rimasto molto tiepido sulle doti di passatore di Giannis, soprattutto a metà campo. Troppo spesso, il greco si affida ai propri mezzi atletici e prende decisioni a mezz’aria.

L’assenza di un playmaker affidabile, oltre ad aver spostato parte delle responsabilità di creazione per gli altri sulle spalle di Antetokounmpo, implica altresì che Giannis debba creare maggiormente anche per se stesso: non a caso, il 52.7% dal campo è il dato più basso dal 2016-17, prima stagione da All-Star del greco. Tutti i limiti di Giannis che, anno dopo anno, ponevano fine alle speranze da titolo della franchigia del Wisconsin si stanno ripresentando prepotentemente in questi mesi, se possibile evidenziati ancora di più dalla stretta di vite data dalla lega sui fischi per palla accompagnata. Sommando tutte queste difficoltà, non dovrebbe sorprendere che Giannis abbia fatto registrare una quadrupla doppia con 12 palle perse contro Toronto, in una delle gare peraltro più dominanti che abbia giocato quest’anno.

Riassumendo, senza Middleton, o comunque con un Middleton a mezzo servizio, le chance da titolo per Milwaukee sono sensibilmente ridotte. Giannis è un giocatore pazzesco, ma a differenza di altri (LeBron, Luka e via avanti), ha bisogno di un contesto ben preciso attorno a lui per fare la differenza.

5) Non c’è mai stato un LeBron così prima d’ora

Avevo una mezza idea di scrivere le cifre di LeBron James a gennaio e lasciarle lì senza commento: 34 punti, 9 rimbalzi e 8 assist in 37′ a notte, tirando 51% dal campo ed andando in lunetta più di 8 volte a notte. Numeri spaventosi, ma che diventano pressoché irreali quando si tiene in conto che LeBron ha 38 anni suonati.

Non c’è nulla del gioco di LeBron su cui non si sia scritto e riscritto, pertanto mi limiterò a far notare che, senza Anthony Davis, i Lakers sono nel bel mezzo di un mese da 7 vinte e 4 perse, e nei minuti con LeBron James in campo hanno un Net Rating di +8. Lo stato di forma di LeBron è a dir poco incredibile, e non perde occasione per metterlo in mostra.

Lo so, epoche diverse, ruoli diversi, momenti diversi della carriera, ma credo che, al fine di dare la giusta dimensione a quel che LBJ sta facendo, possa tornare utile riportare le cifre di altri grandissimi del gioco nella stagione dei loro 38 anni, senza con questo voler dire che la carriera di uno sia migliore di quella degli altri, ma per ribadire che mai prima nella storia del gioco si era visto un trentottenne così. MJ: 23+6+5, 5.6 liberi a notte, 42% dal campo (cifre pazzesche sebbene inferiori a quelle di LBJ); Jabbar, 23+6+4, 56% dal campo, 5.6 liberi a notte (e qui potete anche intuire perché MJ, Kareem e LBJ sono indiscutibilmente i migliori delle rispettive epoche); Duncan, 14+9+3, 51% dal campo, 4 liberi a notte; Olajuwon, 12+7, 50% dal campo, 3.4 liberi a notte. Mi fermo qua, perché andare a scomodare giocatori di enorme statura ma pur sempre inferiore a quella dei sopraccitati non sarebbe corretto (Nowitzki, Garnett, senza citare gli innumerevoli grandissimi del gioco che a 38 anni erano già dietro ad un microfono o su una panchina in giacca e cravatta). Ora andate a rileggere le cifre di LeBron nel mese di gennaio.

Scusate il paragone con altri giocatori, prometto che non lo farò mai più (forse). Era solo per convincere chi poteva avere dei dubbi: come diceva un vecchio adagio della Nike, siamo tutti testimoni.

6) Ahi ahi ahi Jordan Poole

Dopo “quer fattaccio brutto” (semicit.) del cazzotto di Green a Poole, pareva abbastanza chiaro come tutta la squadra avesse preso le parti della giovane guardia da Michigan (ironico peraltro il fatto che la rivalità tra i due sia tale anche in termini di college di provenienza). A quasi quattro mesi dall’incidente, è sufficientemente chiaro che la situazione si sia ribaltata: nessuno tollera più gli atteggiamenti di Poole in campo. L’ultimo capitolo di una lunga serie di frustrazioni che il numero 3 ha dato ai suoi compagni ha avuto come conseguenza l’espulsione di Curry, che in risposta ad un pessimo tiro preso dal compagno nei secondi finali della gara contro Memphis ha lanciato il proprio paradenti.

Il livello del gioco di Poole è drasticamente calato su entrambi i lati del campo rispetto all’anno scorso. Tralasciando le orribili percentuali da 3, per quanto dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che un certo mix di volume e difficoltà delle triple prese dovrebbe essere di pertinenza soltanto del numero 30, è principalmente la quantità di palle perse a preoccupare in attacco: 3.4 in stagione a fronte di soli 4.3 assist, e sembra non ci sia alcuna inversione di tendenza in vista. Potreste dire che parte della colpa nella clip qui sotto sia da attribuire al mancato riposizionamento di JaMychal Green sul perimetro e vi darei ragione, ma è anche per non infilarsi in queste situazioni che Poole verrà pagato circa 125 milioni nei prossimi quattro anni.

Dall’altro lato del campo, le manchevolezze che ha Poole lontano dalla palla sono quasi inaccettabili per un quarto anno che è già stato protagonista di una run playoff profonda. E non che on ball i risultati siano poi diametralmente opposti.

Più genericamente, il livello di impegno che Poole mette in ogni giocata in cui non ha la palla tra le mani o che non sia disegnata per lui pare essere sotto zero.

Golden State ha un roster con molte lacune, che ricorda molto più quello di due stagioni fa che quello campione in carica. Allo stesso tempo, la squadra della Baia ha davanti a sé un’opportunità che difficilmente ricapiterà nei prossimi anni, e il miglior Poole è requisito probabilmente non sufficiente, ma certamente necessario.

7) Lauri Markkanen è un All-Star

So di passare per il vecchio brontolone del quartiere, ma non mi è del tutto piaciuta la copertura mediatica data alla stagione di Lauri Markkanen. Si è partiti con un’aura di “vabbè, gli sta entrando tutto e gioca in una squadra che entro due settimane smetterà di vincere”, per poi dare alle sue cifre un sano tocco di “good stats bad team” fino al non dargli nemmeno lontanamente la considerazione che merita in ottica All-Star Game: Lauri non dovrebbe essere messo nel roster dell’Ovest prendendolo in considerazione per gli ultimi posti come feel good story, dovrebbe essere scritto a penna come una delle primissime riserve.

Il finlandese è a passo dal far registrare una stagione da 50/40/90, tirando 52% dal campo, 43% da 3 e 87% dalla lunetta. La difficoltà dei tiri presi è peraltro sicuramente maggiore rispetto a quella delle passate stagioni (sia a Chicago che a Cleveland le percentuali di tiri assistiti erano maggiori rispetto a quella della stagione in corso), e l’attenzione che le difese avversarie gli dedicano è quella che si deve alle superstar: è estremamente raro che qualcuno gli conceda più di mezzo metro sul perimetro, ed è altresì comune che il piano dei coach avversari sia di far trovare diversi corpi tra Lauri ed il ferro ogniqualvolta lui cerchi di mettere palla a terra.

La cosa di cui forse solo chi ha visto qualche partita dei Jazz ultimamente si è accorto è che Markkanen non si è soltanto limitato a continuare a giocare sui livelli altissimi di inizio stagione, ha addirittura schiacciato il piede sull’acceleratore. Dopo essere partito a 22+8 nelle prime 20 partite della stagione, a gennaio Markkanen ha fatto registrare una media di 29 punti e 9 rimbalzi, e l’ha fatto attaccando con ancora più veemenza il ferro (quasi 9 liberi a notte).

I 35 milioni che Utah deve a Markkanen nei prossimi due anni sono con tutta probabilità uno dei migliori contratti in circolo al momento, e vi faccio alzare le antenne sin da ora: col sistema di estensioni corrente, Utah non sarebbe in grado di offrire un massimo salariale a Lauri senza farlo passare per la Free Agency. Ma al 2025 mancano ancora due anni, e i mormoni possono godersi Lauri Bird con tutta calma.

8) Jalen Duren in arrivo al binario 0

Quando sembrava che il primo quintetto All Rookie fosse scritto nella pietra (Banchero-Mathurin-Murray-Ivey-Williams), ecco che il giocatore più giovane della lega decide di mettere il piede nella porta per non farla chiudere. Da dicembre Jalen Duren parte in quintetto per Detroit, ma è a gennaio che sta facendo sentire la sua presenza nel pitturato: 13+10 ogni notte e, udite udite, 18 su 22 ai liberi nel mese. Che Duren avesse del tocco si sapeva, che fosse un tiratore ai liberi sopra il 70% al suo primo anno della lega però era tutto fuorché scontato.

Sia ben chiaro, la dieta di Duren consiste primariamente di schiacciate, basti pensare che il 63% dei suoi tiri arriva al ferro e nel 71% dei casi non palleggia nemmeno una volta prima di mettere la palla nel cerchio. D’altronde, chi non farebbe così avendo i suoi mezzi atletici a disposizione?

Duren sta lentamente cominciando anche a far vedere i corretti movimenti a ricciolo per sfruttare i blocchi portati da altri compagni per liberarlo per il taglio o l’alley-oop (legato a questo, se non lo avete fatto negli ultimi 2/3 anni aggiungete il nome “Bogdanović” a quelli che fanno decisamente di più di quello che dicono le statistiche base).

Dall’altro lato del campo, le letture del prodotto da Memphis sono ancora da raffinare (e ci mancherebbe altro, non tutti nascono Walker Kessler), ma l’impegno non manca: Duren contesta un sacco di tiri (probabilmente anche troppi, ad ora è un po’ innamorato della stoppata), anche quando il contesto consentirebbe di lasciare i due punti all’avversario.

Duren si era presentato al draft come il centro dal potenziale più alto grazie al suo mix di età ed esplosività: è presto per dire se le promesse verranno attese, ma di certo il ragazzo sta cogliendo al meglio la sua occasione.

Ti è piaciuto l'articolo?
Dacci un feedback:

Loading spinner
Andrea Bandiziol
Andrea, 31 anni di Udine, è uno di quelli a cui potete scrivere se gli articoli di True Shooting vi piacciono particolarmente. Se invece non vi piacciono, potete contattare gli altri caporedattori. Ha avuto la disgrazia di innamorarsi dei Suns di Nash e di tifare Phoenix da allora.