Chris Paul, anatomia di un generale

Chris Paul
Copertina di Marco D'Amato

Quante volte abbiamo sentito l’espressione “floor general”? Molte, ma quante volte ci siamo invece soffermati a chiederci cosa comporti questa definizione, quali siano le caratteristiche che contraddistinguono un buon comandante? Ecco, tutto questo è questione molto più complessa e pone vari interrogativi di non semplice valutazione.

Eppure, per quanto ciò possa sembrare poco credibile, esiste una risposta immediata a tutti questi quesiti ed è un semplice nome: Christopher Emmanuel Paul.

La Point Guard dei Suns ha, all’interno della sua leggendaria carriera, condensato in sé una serie di attributi che l’hanno portato a rappresentare l’epitome di un giocatore in grado di guidare i suoi compagni, di controllare il campo e di rappresentare per l’intero ambiente una vera e propria guida.

Ogni buon generale deve però avere la capacità di adattarsi al proprio esercito e a questo riguardo Paul ha mostrato di essere in grado di alzare il livello in moltissime circostanze e situazioni differenti, sempre riuscendo a sfruttare al meglio le caratteristiche di ogni suo compagno.

Vorrei dunque soffermarmi sul come sia riuscito in tutto ciò, su come sia stato in grado di evolvere il proprio gioco e plasmarlo in funzione delle varie circostanze, come pochi, forse nessuno, ha mai fatto con tale continuità.

Predicatore nel deserto

Il Chris Paul visto a Wake Forest e nei primi 2 anni di NBA è una giovane Point Guard con grande equilibrio e temperamento, specie per l’età, ma ancora inadatta ad essere il primo violino in una squadra di alto livello, nonostante siano indubbie le capacità di gestire i ritmi e guidare i compagni in un attacco con basso pace, caratteristiche che non a caso gli varranno in prima battuta il Rookie of the Year (la cui unanimità viene negata per un solo voto) e poi la convocazione per la sfortunata spedizione americana ai mondiali giapponesi.

È difatti dalla sua terza annata che Paul si consacra come il miglior rappresentante del ruolo all’interno dell’intera lega e nel corso della quale raggiunge il suo apice assoluto per quanto riguarda la prima parte di carriera. Il salto rispetto alla stagione precedente è enorme e avviene specialmente grazie ad un incremento delle percentuali in due zone chiave del campo: al ferro, dove passa dal 50% al 57% e dal mid-range, da cui eleva le proprie percentuali del 7%, il tutto con un aumento contestuale dell’AST% oltre il 50%, con un incremento similare alle cifre dello shooting.

Dal punto di vista tecnico rifinisce enormemente le doti di palleggio, parte fondamentale del suo gioco e fattore che gli permette di raggiungere facilmente le zone del campo a lui più congeniali senza eccessivo sforzo; non parliamo nel suo caso di ball-handling appariscente, quanto piuttosto solido, che permette di tenere il pallone in estrema sicurezza, abbinando a delle scelte conservative una capacità di sapere quando e dove fermarsi per esporsi al minimo rischio di palla persa. La modalità con cui l’uomo viene battuto è quindi molto più basata su repentini cambi di ritmo, accelerazioni e frenate nello spazio di pochi metri in grado di far perdere al difensore l’equilibrio quel tanto che basta per sorpassarlo con facilità.

Fisicamente non siamo ancora al livello degli anni successivi ma già si intravede una grande forza nella parte superiore del corpo che permette di resistere con continuità ai contatti e di finire ottimamente al ferro, caratteristica che, nonostante un tiro perimetrale ancora ondivago, garantisce a Paul una dimensione da scorer di tutto rispetto.

Tende poi a preferire passaggi verso l’interno piuttosto che ribaltamenti o scarichi perimetrali (che all’epoca, per conformazione dell’organico e per inabilità proprie erano molto meno frequenti), specie in situazioni di p&r, fattore estremizzato dalla presenza a roster di lunghi adatti principalmente a delle ricezioni dinamiche, tra i quali l’unico altro All-Star della squadra, David West. Al contrario dei Nash e di altri all-timer offensivi, il suo stile è estremamente più conservativo e se questo si traduce sì in un bassissimo numero di palle perse, è anche vero che sono minori le chance con alta leverage create per i compagni.

Dal punto di vista dell’impatto le due stagioni 207/2008 e 2008/2009 sono di livello clamoroso, con la prima a spiccare in modo netto: nonostante un supporting cast non necessariamente di altissimo livello, Paul e New Orleans producono un SRS corrispondente a 60 vittorie con la squadra al completo e 5,6 di rORtg, dati assolutamente straordinari in considerazione del contesto. Tutte le cifre di quell’annata sono però di livello all-time: quasi 9 di On-Off e 17.8 di WS sono solo alcune delle metriche spaventose che Paul fa registrare, a cui si aggiunge un impatto difensivo totalmente inaspettato per una guardia sottodimensionata, certificato da 3.2 e 3.8 di DWS fatti vedere in stagioni consecutive, cifre più simili a quelle di un’ala versatile piuttosto che a quelle di una PG di 22 anni.

Paul non è infatti mai stato, a differenza di tanti altri all-timer con dimensioni comparabili, un giocatore che si risparmiasse in difesa, e anzi, il suo valore da questo punto di vista è assolutamente comparabile ai top visti nel ruolo, con poco da invidiare a nomi quali Jason Kidd o Gary Payton.

Dal mio punto di vista il biennio 2008-2009 rappresenta la massima espressione di una point-guard in epoca moderna, perlomeno con riguardo al periodo precedente all’avvento dei mega-creator come categoria e dei sistemi eliocentrici; aggiungo che entrambe sarebbero entrambe state pienamente meritevoli di un premio di MVP, perso a causa di una storica stagione di LeBron James e della narrativa che tendeva a spingere verso Kobe Bryant.

Nel 2011 purtroppo gli strascichi dell’infortunio non gli permettono di esprimersi al meglio, si intravede però un notevole miglioramento dal punto di vista del jumper, che sarà ancora più evidente, e fondamentale, nelle annate successive.

The high flying circus

Se prima Chris Paul era un giocatore perfetto per gestire i ritmi di un attacco basato sul basso numero di possessi e sulla prevalenza della metà-campo, la versione vista fra il 2012 e 2015 è invece una vera e propria dinamo di energia alla guida di uno spettacolo aereo senza precedenti. Nonostante un atletismo in calo infatti Paul orchestra una dimensione offensiva che fa della transizione la sua arma principale.

Lo sviluppo del tiro perimetrale è ormai completo e il CP3 visibile in quel di Los Angeles è una delle più micidiali macchine da mid-range della storia della pallacanestro, il balzo da questo punto di vista è infatti piuttosto enorme, e se consideriamo la base di partenza è facile capire quanto ciò sia straordinario: Paul tiene infatti, fra la stagione 2012 e quella 2017 il 48% da questa zona (con picchi oltre il 50), dopo non aver mai superato il 44% nell’iterazione precedente. Le letture si sviluppano e i ribaltamenti vengono ormai eseguiti con regolarità cronometrica. Tutte queste capacità sono messe a disposizione di Blake Griffin e DeAndre Jordan, che delle escursioni sopra il ferro sulle alzate di Paul faranno un vero e proprio marchio di fabbrica.

I Clippers non sono però tutti schiacciate e highlights: la squadra prima di Del Negro e di Rivers poi ha infatti la capacità di alternare possessi brevissimi ad azioni al limite dei 24 in cui lo stesso Paul si prende tutto il tempo necessario per selezionare la situazione più favorevole e fare le proprie scelte. Tutto questo viene però con un costo: l’eccessivo tempo di possesso e quantità di palleggi spesi da Paul portano infatti molte azioni a stagnare e la palla a fermarsi in modo prevedibile per la difesa, rischio cui puoi accettare di andare incontro con un giocatore del genere da certi punti di vista fisiologico, ma non comunque sintomo di ottimale gestione, sia essa dovuta alla stessa star o a un sistema non in grado di trovare alternative credibili, o ancora, come più probabile, per un mix di entrambe le cose.

La transizione primaria, pur essendo sicuramente ciò che più ha contraddistinto quel periodo, non è mai stata infatti pienamente sfruttata dalla squadra di LA, la quale per tutte le 6 annate con Paul non supererà mai il settimo posto come pace, avvicinandosi anzi spesso a posizioni nella media, e in mancanza di questa i limiti tecnici del frontcourt risulteranno piuttosto evidenti.

La mancanza di soluzioni che non riducano tutto a un costante Hero-ball di Paul o Crawford si fa infatti sentire nelle situazioni più rilevanti, Griffin fino al 2015/2016 non avrà mai la versatilità nella creation necessaria, pur migliorando di anno in anno, e Jordan si dimostrerà un giocatore troppo limitato per incidere in contesti probanti, tocca così quindi quasi sempre a Paul, nei momenti di difficoltà, prendersi anche le responsabilità da scorer primario.

Dalla stagione 2013/2014 aggiunge inoltre al suo repertorio delle episodiche situazioni di post-basso, spesso finalizzate alla ricerca di una conclusione nei pressi del ferro.

 

Al contrario di quello che si pensa, Chris Paul non è affatto un giocatore riluttante nelle situazioni in cui si rende necessario mettersi in proprio, e anzi, una parte del suo incredibilmente basso rate di palle perse è proprio dovuto alla sua scelta di evitare un passaggio rischioso nelle situazioni in cui può concludere in prima persona, specie al ferro, nella cui zona manterrà sempre un’ottima percentuale, perlomeno finché l’atletismo gli permetterà di concludervi con costanza (un esempio: 57% in area fra le stagioni 2013 e 2014 ove fra 2008 e 2009 la percentuale si assestava intorno al 50%).

A livello difensivo viene esibita, come già a New Orleans, un’incredibile coordinazione mano-occhio che lo porterà a finire più volte in cima alla classifica delle STL, non è però questa la sua caratteristica più rilevante: Paul è infatti un eccellente difensore sull’uomo sia per conformazione fisica che per rapidità di piedi, che gli permettono di tenere efficacemente 3 ruoli senza soffrire troppo la differenza di taglia e anzi, facendo spesso patire alle ali meno fisiche la propria forza nella parte superiore del corpo.

Dal punto di vista dei cosiddetti “accolades“, queste sono sicuramente le stagioni più ricche di successo per Chris, che mette in fila primi quintetti e convocazioni all’All-Star game, con la ciliegina sulla torta della medaglia iridata alle olimpiadi di Londra 2012.

A livello playoffs i Clippers inanellano però delusioni cocenti, frutto soprattutto dei frequenti infortuni dello stesso Paul o di componenti fondamentali del roster, come lo stesso Blake Griffin o Matt Barnes. Il punto più basso arriva però forse nel 2015: reduci da una serie leggendaria contro gli Spurs campioni NBA (con altrettanto leggendario game-winner su una gamba sola di Paul in gara 7, che “esemplifica cosa voglia dire essere un campione”), i Clippers si presentano alla serie con Houston avendo tutti i favori del pronostico e, nonostante un Paul acciaccato quando non assente, si portano facilmente avanti per 3-1.

Da quel momento però per la franchigia californiana si spegne la luce, Griffin e Jordan cominciano a palesare tutti i loro limiti e Paul, limitato dai problemi al ginocchio, non sembra in grado di chiudere quella serie da solo. I Clippers perdono 3 gare in fila e la conseguente serie, della quale resta l’immagine di una gara 6 rimontata sul -15 dai Rockets grazie alle prodezze dei reietti Josh Smith e Corey Brewer.

L’epoca di Lob-City si spegnerà poi definitivamente negli anni successivi, a causa dei sempre più frequenti acciacchi dello stesso Paul, ormai arrivato alla fase calante della propria carriera. 

Moreyball

La fame di un anello, specie per un giocatore di livello all-time, è direttamente proporzionale all’avanzare dell’età, e mi permetto di supporre che sia con questo concetto ben chiaro in mente che nel 2017 Chris si accasi alla corte di James Harden e Mike D’Antoni.

Paul è ormai perfettamente conscio di non essere in condizioni fisiche e ambientali tali da ambire ad essere il primo violino di una contender, e con l’intelligenza che lo ha sempre contraddistinto adatta il suo gioco e le sue convinzioni di conseguenza.

I Rockets iniziano quella stagione con uno e un solo quesito marchiato a fuoco nella testa: “come possiamo battere i Golden State Warriors?”, e con questo mantra Daryl Morey costruisce intorno alle loro due superstar un roster che si rivelerà perfetto per lo scopo prefissato. L’idea è chiara: cambiare difensivamente su ogni blocco e costringere gli avversari a giocare contro le loro tendenze e in modo simile alla stessa Houston, cercando con pazienza in attacco l’accoppiamento più congeniale a Paul o Harden, abbassando i ritmi e non permettendo all’onda gialloblu di travolgerti con la transizione.

L’annata è di enorme successo, i Rockets terminano con il miglior record della lega e James Harden si porta a casa il primo e unico premio di MVP fino ad oggi, mentre Paul comincia a mostrare il fianco al tempo e salta un buon numero di partite a causa di vari acciacchi.

In campo però, nonostante il fisico ormai calante, mostra di essere perfetto anche per il tipo di pallacanestro voluto da D’Antoni: la forza nelle gambe gli permette ancora di cambiare con efficacia e in attacco fornisce una validissima alternativa ad Harden, sia permettendogli di rifiatare, sia a livello puramente tecnico, consentendo alla squadra di alternare momenti di Moreyball pura a qualche soluzione dal mid-range nelle serate più negative per i tiratori (volendo dare un dato: +10% di percentuale da quella zona nelle situazioni con Paul rispetto a quelle senza, uno sproposito con riguardo ai precetti su cui è predicato quel genere di pallacanestro e per il tipo di conclusioni).

Affina inoltre alcune furbizie tecniche, specie sfruttando la permissività degli arbitri in alcune circostanze: è il caso per esempio di alcuni blocchi “irregolari” utilizzati per andare downhill, soprattutto in situazioni di in transizione.

 

Il culmine della stagione è però ovviamente ai playoffs: dopo due turni interlocutori si arriva infatti al main event, quella che sostanzialmente è la vera serie finale della stagione 2018. La serie è bellissima ed equilibrata e sul 2-2 è proprio una grande prestazione di Paul a regalare a Houston il punto del vantaggio.

Se la fortuna è cieca, come si suol dire, la sfiga ci vede però benissimo e, proprio nel momento più alto della sua carriera, quello in cui più il sogno di un anello sembra vicino, affonda il colpo più duro: nei minuti finali della summenzionata gara 5, Paul patisce un infortunio alla gamba destra che costerà a lui le ultime partite della serie e a Houston probabilmente un titolo che sembrava davvero alla portata. Lo sguardo con cui esce riluttante dal campo a 35 secondi dalla fine è l’emblema di cosa voglia dire per un fenomeno vedersi svanire di fronte agli occhi la chance di una vita.

Il Chris Paul visto nelle due annate alle dipendenze di D’Antoni è un giocatore cerebrale ed esperto, in grado di leggere le difese con facilità ed adattarsi di conseguenza, riuscendo perfettamente a gestire i momenti della partita in cui attaccare e quelli in cui deferire ad Harden. Non sono rari i casi in cui è possibile vederlo sbracciarsi per indicare a un compagno un movimento, un taglio o un aiuto da portare con estremo anticipo, capacità tipica di chi legge il gioco ad un’altra velocità ed è quasi infastidito dall’incapacità degli altri di vedere cose per lui tanto evidenti.

Nonostante i comunque ottimi risultati di squadra, il rapporto fra le due star non appare però idilliaco e, a seguito di un’altra cocente uscita ai playoffs sempre per mano di Golden State, Paul, oramai considerato da molti un giocatore al tramonto della carriera e con un contratto troppo pesante da giustificare, viene spedito ai Thunder.

Clutch-gene

Le peculiarità che più connotano l’esperienza di Chris ad Oklahoma City sono le enormi doti di leadership e l’influenza, nonché la calma, che è in grado infondere con frequenza ai compagni. Tutti questi attributi si traducono concretamente in quello che rappresenta sicuramente il carattere più marcato dei ragazzi guidati da Billy Donovan, ovvero la capacità di rimanere freddi nei momenti più difficili, riuscendo spesso a rimontare anche da svantaggi importanti negli ultimi minuti, soffrendo ben poco la pressione.

I numeri di Paul da questo punto di vista sono piuttosto eloquenti: con lui in campo, negli ultimi 5 minuti di una partita con scarto entro i 5 punti, i Thunder producono un irreale 17.7 di Net Rating concludendo con una True Shooting del 61%, cifre raramente replicate nella storia e che subiscono un ovvio calo vertiginoso nei momenti in cui lo stesso Paul siede in panchina.

Il combinato disposto fra bassissimo numero di palle perse, realizzazione anelastica e capacità di prendere la decisone giusta hanno reso il Paul di quest’annata la definizione perfetta di cosa significhi avere la capacità di chiudere le partite.

I risultati di squadra riflettono e seguono inevitabilmente le performance del loro leader: nonostante gli addii di Westbrook e George infatti i Thunder ottengono una percentuale di vittorie maggiore rispetto all’anno precedente, risultato sicuramente insperato alla vigilia della stagione.

OKC si rende anche protagonista della serie di primo turno più interessante fra quelle proposte nella bolla di Orlando, ovvero quella che li vede contrapposti proprio ai Rockets. All’interno delle 7 partite Paul continua a mostrare tutta la sua calma e freddezza nelle situazioni più concitate, ma, proprio nel momento della verità, la sua lucidità, o forse le sue gambe, paiono tradirlo per un attimo.

Dopo aver infatti dominato il mismatch con Covington per tutta la serie, Paul rinuncia ad attaccarlo nel finale di gara 7, nonostante più volte se lo trovi davanti, una situazione totalmente anticlimatica e apparentemente poco spiegabile. Nonostante questo i Thunder riusciranno a portare la partita all’ultimo tiro, perdendola poi sulla stoppata di Harden contro l’eroico Dort.

La sua stagione

A livello di incidenza sulla partita, il Paul visto quest’anno non risulta troppo dissimile da quello delle precedenti due stagioni. I tentativi al ferro diventano sempre più radi, così come le percentuali sono in grande calo (di fatto le situazioni vicino a canestro vengono oramai ricercate quasi solo per lucrare liberi contro avversari meno esperti), ciononostante l’impatto non sembra risentirne.

Chris ha infatti ormai totale padronanza dei propri ridimensionati mezzi, riuscendo a comprendere in pochissimi istanti quando sia il momento di fare una giocata e quando di mettere in ritmo i compagni. Viene dunque estremizzato un trend già molto presente nelle annate ai Clippers, con Paul che passa i primi 2Q di gioco a distribuire, specie verso Ayton, per poi prendere in mano il pallino del gioco negli ultimi due quarti.

Ha sviluppato inoltre una fortissima intesa con alcuni compagni di squadra, primo fra tutti Saric, il quale meglio di tutti riesce a sfruttare le ottime occasioni fornitegli come rollante, quando non addirittura si trovi lui in prima persona nella condizione di servire Paul, magari dopo una relocation o un raddoppio subito dallo stesso lungo. La percentuale di tiri da fuori, seppur diminuita rispetto alle annate di Houston, è poi rimasta molto alta, con la maggior parte delle conclusioni che tende ad arrivare dalla zona centrale.

La peculiarità che però più stupisce è quanto, nonostante l’età, Paul abbia ancora una grandissima tenuta aerobica, il minutaggio è lo stesso del 2017 e non è infrequente vedergli giocare 12 minuti di fila o 22 su 24 in due quarti filati, soprattutto quando la partita necessità la sua presenza, possibilità che alla sua età può essere concessa solo dal combinato fra condizione invidiabile e abilità nel selezionare situazioni in cui prendersi un giro di riposo sul campo.

Viste le premesse, le aspettative sui Suns non possono che essere altissime, il supporting cast pare essere adattissimo alle due stelle di riferimento e Monty Williams ha indubbiamente fatto un ottimo lavoro nel variare le soluzioni tattiche a disposizione dello stesso CP3.

 

Purtroppo per la franchigia dell’Arizona però, nonostante l’ottima stagione, il probabile avversario al primo turno pare essere proibitivo: i Lakers rappresentano infatti forse il peggior matchup possibile oltre che opinabilmente la squadra migliore della lega in termini assoluti.

Insomma, la fortuna pare non stare girando dalla parte di Chris Paul nemmeno questa volta, vedremo però se riuscirà a stupirci, magari allungando la serie oltre le aspettative e spaventando un po’ il suo amico LeBron James.

Ti è piaciuto l'articolo?
Dacci un feedback:

Loading spinner
Leonardo Pedersoli
Giurista e poeta vate di TrueShooting. Tifoso Knicks per (ormai passato) autolesionismo, si consola ammirando il tatuaggio dedicato al più grande di sempre.