I 5 upset più assurdi nella storia del primo turno di playoff

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Copertina di Nicolò Bedaglia

Per ingannare l’attesa che distanzia il termine della regular season dall’inizio dei playoff, è cosa buona e giusta analizzare le serie che si prospettano all’immediato orizzonte. Storicamente, il primo turno è un po’ un caso a sé, con frequenti testa coda dal sapore scontato. Oppure incroci apparentemente combattuti sulla carta, che scivolano via grazie ad eventi particolari, o delusioni impreviste.

Non è cosa comune incontrar stagioni dove si entra subito nel vivo della competizione in più fronti: spesso accadeva in caso di rivalità particolari, talvolta a causa di sorprese incredibili. Squadre magari sottovalutate, o più probabilmente giovani, in grado di farsi trascinare da quei momenti di entusiasmo che sono tipici della pallacanestro. Quando tutto sembra funzionar bene, i tiri entrano, la chimica è al massimo, e succede qualcosa di memorabile.

Che in una lega che ama tramandare e creare narrazioni iconiche da ricordare nel tempo, significa entrare nella storia, a prescindere dell’eventuale successo finale. È così che nascono gli upset indimenticabili, una delle cose che è bello provar a prevedere, che riempiono di soddisfazione gli spettatori quando capita di viverle, anche senza essere tifosi di una squadra in particolare. Proviamo a ricordarne 5, non necessariamente i più iconici, ma sicuramente interessanti da analizzare a posteriori.

Fuori dalla lista – a malincuore – restano autentici pezzi di storia della lega, come l’incredibile torsione di Ralph Sampson con un secondo sul cronometro, che nel 1986 permise ai Rockets di eliminare i favoritissimi Lakers. Oppure il successo in 5 partite degli imprevedibili New Jersey Nets del 1984 – la squadra di Buck Williams, Sugar Ray Richardson e Darryl Dawkins – sui quotatissimi Sixers con Doctor J, Moses Malone, Mo Cheeks e Andrew Toney.

E come dimenticare le battaglie tra Knicks e Heat, destinati a scontrarsi subito per due anni consecutivi nel 1998 e 1999. Tra risse, squalifiche ed un (quasi) buzzer beater come quello di Allan Houston premiato dal ferro nella stagione del primo lockout.

Supersonics upset Mavericks, 1987

Si tratta di una squadra troppo spesso dimenticata, ma a cavallo della metà degli anni ‘80 i Dallas Mavericks erano un gruppo decisamente talentuoso, con una potenza di fuoco offensiva di prima fascia, ben orchestrata da Dick Motta in panchina.

Nella stagione 1986/87 vincono 55 partite in regular season, piazzandosi al vertice della Midwest Division e presentandosi ai playoff con ambizioni legittime, grazie al secondo record di Conference. Oltre ad un giovanissimo Detlef Schrempf a funzionare da sesto uomo, la squadra gravitava attorno a Mark Aguirre e Rolando Blackman, ben accompagnati da Derek Harper e Sam Perkins. Una promessa non mantenuta come Roy Tarpley – rookie proveniente da Michigan – stava per spiccare il volo prima di bruciarsi le ali da solo, come un Icaro qualunque, squalificato a vita per abuso di sostanze.

Ad attenderli i Seattle Supersonics di Bernie Bickerstaff, definiti da Red Auerbachla peggior squadra della lega” in avvio di campionato. Un gruppo dalle personalità complesse e reduce da una stagione difficile, qualificatosi in postseason per il rotto della cuffia (39-43 il record).

Sulla carta la serie appare come una semplice formalità per i texani, e l’epilogo di gara 1 sembra confermarlo senza troppi problemi: i Sonics incassano la bellezza di 151 punti, realizzandone comunque 129.

Per provare a capire il tipo di gioco del tempo, Dallas chiude la gara con uno zero su tre complessivo da dietro l’arco, facendo registrare comunque un punteggio ai limiti del reale per quattro quarti canonici di sfida, pur non trattandosi di un record se non di franchigia.

Serie incanalata verso un comodo sweep? Neanche per idea, perché Seattle può disporre di mazzolatori del calibro di Xavier McDaniel, killer dall’espressione corrucciata come Dale Ellis, e soprattutto un Tom Chambers in stato di grazia.

Nelle restanti tre partite il terzetto trasforma la serie in una battaglia, portandosi sul 2 a 1 grazie a 43 punti e 14 rimbalzi di un Ellis devastante nel pivotal game, prima di chiudere la pratica con un secco 124 a 98 in gara 4 al Coliseum.

Un’autentica doccia fredda per Dick Motta che lascerà i Mavericks di lì a poco, dopo esser uscito anzitempo con una squadra che avevano sconfitto per ben 5 volte in stagione (al tempo, la lega contava 23 squadre al suo interno). Chambers e compagni avrebbero proseguito a stupire eliminando anche i Rockets di Olajuwon e Sampson al secondo turno, prima di venir spazzati via dai Lakers dello showtime nelle finali di Conference.

Bulls upset Cavaliers, 1989

Parlavamo di momenti destinati alla storia in presentazione di articolo, e quando pensiamo a questa serie ci appare automaticamente l’immagine di Michael Jordan, impegnato a galleggiare in aria davanti ad un impotente Craig Ehlo, per deciderla all’ultimo secondo con il proverbiale “The Shot”. O almeno, la prima versione di questo.

I Bulls di Doug Collins si presentano in postseason come squadra ancora acerba, anzi incompleta malgrado la grandezza del già osannatissimo numero 23. A parte lui – canalizzatore di attenzioni e divoratore di palloni – Pippen e Grant sono due inesperti al secondo anno, e giocatori di completamento come Sam Vincent e Brad Sellers non convincono nessuno. MJ in primis, ovviamente. Di contro, i Cavaliers sono la seconda forza di Conference dietro ai Bad Boys (con 57 vittorie), ed hanno sconfitto i diretti avversari tutte e sei le volte in cui li hanno incrociati in regular season.

Se guardiamo al roster, la vera domanda da porsi riguarda il perché una squadra simile non abbia ottenuto il successo meritato. In panchina c’è un mago come Lenny Wilkens, mentre il gioco offensivo viene orchestrato da Mark Price, uno dei migliori playmaker puri del tempo. Il front court da lui sostenuto fa ancora impressione, contando la disponibilità contemporanea in campo di tre torri come Larry Nance, Brad Daugherty e Hot Rod Williams. Un connubio di fisicità, atletismo e tecnica da combinarsi per punti, rimbalzi e sportellate nel pitturato.

E come se non bastasse, nel ruolo di guardia c’è Ron Harper, un giocatore molto diverso rispetto alla pedina di sistema vista nella seconda parte di carriera (dalla metà dei ‘90) proprio con Bulls e Lakers, da alfiere di Phil Jackson. Il Ron dei Cavs prima, e dei Clippers poi, era uno strepitoso realizzatore oltre che un atleta che qualcuno – di certo esagerando – osava paragonare anche con top di ruolo come Clyde Drexler, o lo stesso Jordan.

Inutile dire che solo con un dominio totale di Michael sul gioco dei suoi – per la rabbia di un Tex Winter impegnato a far digerire il triangolo alla squadra – Chicago poteva aver speranza di forzare cinque partite. Per lui 31 punti in gara 1 (con 21 tiri), 30 in gara 2 (22 tiri), 44 in gara 3 (34 tiri), 50 in gara 4 (28 tiri) e 44 nella decisiva “bella”, tirando 32 volte con noto canestro sulla sirena incluso. Capace di spazzar via l’ultimo minuto eroico di un Ehlo apparentemente destinato a svestirsi dai panni del comprimario, dapprima a canestro in layup con 3 secondi sul cronometro, e poi superato in volo provando a difendere l’indifendibile.

Un’azione destinata a far discutere ancora oggi, ad oltre 30 anni di distanza, con Harper piccato per non aver potuto difendere il rivale che avrebbe avuto come compagno qualche anno dopo. Come ricordato in modo polemico nel recente The Last Dance, la serie sulla carriera di Jordan uscita su Netflix poco più di 365 giorni fa.

I Bulls avrebbero continuato la loro cavalcata fino al violento scontro con il muro dei Pistons, in finale di Conference. Per i Cavs, invece, la maledizione del primo turno continuerà fino al 1992, dove più o meno lo stesso gruppo dovrà arrendersi solo al penultimo atto, ancora una volta contro Chicago.

Lakers upset Supersonics, 1995

Quando pensiamo agli upset clamorosi al primo turno, è impossibile non visualizzare Dikembe Mutombo che abbraccia il pallone sotto il canestro di Seattle, nel 1994. Quando degli improbabili Denver Nuggets rientrarono da un passivo di due gare a zero contro la squadra favorita, quella di Gary Payton e Shawn Kemp: la prima volta in cui una testa di serie esce con un gruppo qualificatosi come ottava. Ma quello avvenuto la stagione seguente è per certi versi più clamoroso, perché errare può essere umano, ma perseverare in leggerezza non può definirsi diabolico in questo caso. Piuttosto masochistico.

Per il campionato 1994/95 un titubante Wally Walker aveva confermato più o meno il blocco che aveva deluso in una stagione da 63 vittorie, operando accorgimenti strutturati per raffreddare uno spogliatoio simile ad un soffione boracifero. Via Ricky Pierce (finito a metter le mani in faccia a The Glove) e dentro il lituano Šarūnas Marčiulionis. Un duro, decisamente più incline a star sulle sue piuttosto che rispondere alle polemiche di un gruppo che confermava al suo interno personaggi come Kendall Gill, con i senatori Nate McMillan e Sam Perkins a far la parte dei maestri d’asilo. Un ruolo che sarebbe spettato a coach Karl, che però aveva un concetto tutto suo di gestione dell’armonia di squadra.

Il risultato è un ottimo record da 57 vinte e 25 perse, ed una versione piuttosto insipida dei Los Angeles Lakers che si prospetta all’orizzonte. Una squadra in piena transizione condotta da coach Del Harris in panchina, con Cedric Ceballos e Nick Van Exel a guidare l’attacco, il senatore Vlade Divac a offrir qualità (e visione di gioco magistrale per un lungo del tempo) sotto canestro, ed un rookie promettente come Eddie Jones. Non un nucleo pessimo, intendiamoci. Ma era impossibile pensare che Seattle potesse perdere tre sfide con una differenza di talento tanto grande, a maggior ragione per il secondo anno consecutivo.

In gara 1 Gary Payton gioca una delle sue peggiori partite di sempre in maglia Sonics, ma lo sforzo per iniziare con il piede giusto appare minimo, con Kemp e compagnia che gestiscono agilmente la partita per strappare definitivamente nell’ultima frazione.

Per quanto riguarda le sfide al Tacoma Dome la faccenda non sembra preoccupare, e nonostante la debacle con i Nuggets fosse iniziata con la sudditanza psicologica di Reign Man rispetto a Mutombo ed il pubblico del Colorado, il clima poco entusiasta del Forum non poteva esser peggiore da sostenere. Ma nella seconda sfida si consuma il fattaccio: Seattle concede subito 30 punti nel primo quarto, per realizzarne appena 11 in quello conclusivo. Con Payton, Kemp e Schrempf che combinano per uno zero su 7 totale dal campo, per una squadra tenutaria di un attacco da 110 punti di media per gara.

I gialloviola la spuntano per appena due punti, ma nella testa degli avversari si manifestano i peggiori fantasmi immaginabili, ed il crollo mentale è di quelli difficili da rivedere.

Con la serie che si sposta a Los Angeles i Sonics percepiscono un’inerzia scivolata già via dal loro controllo, e dopo esser andati pesantemente sotto in avvio, non riescono a sbloccarsi per completare la rimonta.

Van Exel si esalta chiudendo un primo turno da 25 punti di media con i 34 di gara 4 (con 7 triple), e per quanto il punteggio finale racconti di una vittoria di misura, ancora una volta i ragazzi di George Karl si bloccano nel quarto decisivo. Inanellando la seconda eliminazione al primo turno consecutiva, da favoritissimi.

Smantellare il tutto sembrerebbe il minimo, ma il GM Walker decide in qualche modo di dar ancora fiducia a (quasi) tutti, e nel 1996 arriveranno delle clamorose Finals contro i Bulls delle 72 vittorie.
Pur dopo aver sudato freddo in avvio di postseason, contro i poco pretenziosi Sacramento Kings.
Quando in tanti si aspettavano il terzo crollo consecutivo, la sorpresa fu vedere Seattle reagire, e scrollatasi la scimmia dalla spalla il resto della cavalcata fu quasi un successo.

Warriors upset Mavericks, 2007

Al termine della regular season 2006/07 i Dallas Mavericks appaiono tra le favorite per raggiungere l’ultimo atto della postseason, che per loro rappresenterebbe un ritorno. Dopo aver perso in finale con gli Heat dei Big 3, la squadra allenata da Avery Johnson vince la bellezza di 67 partite su 82, con Dirk Nowitzki che si laurea MVP stagionale con quasi 25 punti, 9 rimbalzi e 3 assist di media.

Nessuno avrebbe potuto immaginarli in difficoltà al primo turno: una condizione ridondante per favorire l’upset storico che stiamo introducendo, considerando che li attendono i Golden State Warriors di Don Nelson.

Si tratta di una squadra di underdog se ce n’è una, eccezion fatta per il loro leader Baron Davis, punta di diamante per un gruppo cattivo, imprevedibile, tendenzialmente discontinuo.

Quando devi incontrare giocatori come Stephen Jackson, Jason Richardson, Al Harrington, Matt Barnes ed un clamoroso Monta Ellis in fase di esplosione, sai perfettamente che possono accendersi o spegnersi in base a fattori non scontati. E se una giornata storta può portare al crollo di ogni velleità, può esser sufficiente un episodio a fornire quel fuoco di fiducia in grado di bruciare chiunque, facendosi spazio senza chiedere il permesso, quasi fosse napalm.

Anche perché Nelson inserisce nella mente dei suoi giocatori quelle motivazioni necessarie per sfidare il mondo, superando le basse aspettative destinate dai giudizi degli analisti, pur avendo sempre sconfitto i Mavs ad ogni incontro stagionale. In un campionato dove, come abbiamo visto, di partite Nowitzki e compagnia ne avevano perse ben poche.

Golden State rappresentava un’autentica bestia nera fondata su un quasi inedito small ball di sistema, con l’imprevedibilità di Davis per disintegrare gli schemi difensivi di Dallas e un incredibile Stephen Jackson sulle tracce dell’MVP. E con discreto successo.

Quindi, sulla carta l’incrocio appare un moderno Davide contro Golia, ma nella realtà le peculiarità dei Warriors erano quanto di peggio potesse accadere ai vice campioni del mondo, confermandolo già da gara 1. Con un Barone da 33 punti, 14 rimbalzi, 8 assist ed esordio da doccia fredda avversaria, con agile successo in trasferta.

Con una duplice espulsione a vantaggio dei Mavs, la serie si sposta ad Oakland in equilibrio, ed a quel punto il ruolo chiave tocca recitarlo al pubblico, infiammato e rumoroso nel sostenere i suoi coniando lo slogan “We Believe”, destinato a passare alla storia. Nowitzki ed i Mavericks riescono a riemergere boccheggiando solo in gara 5, dopo aver perso due partite consecutive nella bolgia della Oracle Arena.

Tornati nella baia, i favoritissimi dal pronostico vengono letteralmente spazzati via per 111 a 86, e divengono così la prima squadra squadra dopo i Celtics del 1973, ad aver vinto più di 65 partite in stagione senza giungere all’anello.

76ers upset Bulls, 2012

Ci siamo, nella stagione 2010/2011 sembra che finalmente il momento di Chicago sia tornato. Dopo un’attesa più o meno iniziata dal giugno del 1998, quando Michael Jordan realizzò quella sequenza incredibile a Salt Lake City, coronando il “repeat of three peat” nella dichiarata stagione de “l’ultima danza”.

Da allora, ricostruzioni faticose, scelte più o meno azzeccate, difficoltà che vengono rapidamente dimenticate quando Derrick Rose – detto “Chicago’s finest” – conduce i suoi fino alle Conference Finals, cedendo agli Heat di LeBron ma vincendo un clamoroso MVP stagionale. Per l’anno seguente tutti lo attendono, ed i ragazzi di coach Tom Thibodeau si presentano alla postseason con 50 vittorie stagionali (su 66 partite totali, causa avvio ritardato) ed il miglior record di Conference.

I Philadelphia 76ers che incrociano, appaiono squadra atipica se ce n’è una. I veterani sono Elton Brand e Andre Iguodala, giunto all’ottava stagione nella lega e leader del gruppo in entrambi i lati del campo. Poi, una serie di atleti che sapranno far bene negli anni a seguire, ben alternati da coach Doug Collins: da Lou Williams a Jrue Holiday, passando per Thaddeus Young ed Evan Turner, con un Nikola Vučević alla prima stagione in NBA.

Insomma, le responsabilità son ben distribuite, ma sembrerebbe mancare una stella assoluta a fungere da trascinatore. Come si dice in questi casi, troppo poco per impensierire i Bulls di D-Rose, considerato eroe di franchigia presente e futuro. Uno di quelli che possono riportare la squadra dell’Illinois a rinverdire fasti che appaiono ormai distanti anni luce.

Gara 1 sembra suggerire la conferma totale delle previsioni, con Chicago che conduce agilmente grazie ad un contorno ideale per esaltare la propria stella, che parte in quintetto affiancato da Rip Hamilton, Carlos Boozer, Luol Deng e Joakim Noah.

L’incontro volge al termine senza troppo da raccontare nei minuti finali, con Rose ad un passo dalla tripla doppia con 23 punti, 9 rimbalzi e 9 assist. Manca poco più di un minuto al termine ed i Bulls conducono per 99 a 87. Chicago’s Finest brucia il diretto avversario in penetrazione, si arresta e rimbalza come una molla, fintando il tiro per scaricare a Boozer sulla linea di fondo. La sua carriera cambia tragicamente con quel balzo scomposto, ed è storia tristemente nota.

Il legamento crociato anteriore del suo ginocchio sinistro, salta. E lo costringerà a non giocare l’intera stagione seguente.


La serie, inevitabilmente vira. In modo surreale, doloroso ma impietoso i Sixers vincono le seguenti tre sfide, con un clamoroso rientro dei ragazzi di Thibodeau in gara 5 (Philadelphia tira complessivamente con il 33% dal campo).

La sesta partita al Wells Fargo Center è drammatica, con Deng e compagni che conducono di 3 lunghezze a 25 secondi dal termine, spinti più dalla rabbia che da altro. Thaddeus Young porta la squadra di casa a meno uno, con il palazzo che risuona come una bolgia, ed il povero Ömer Aşık che finisce in lunetta. Suo malgrado ancora in campo.

Con 7 secondi sul cronometro il primo libero è cortissimo, ed il secondo non va meglio. Senza timeout a disposizione, Andre Iguodala conquista il rimbalzo e percorre tutti i 28 metri di campo, conquistando un fallo in penetrazione e stavolta senza sbagliare i liberi. Finisce così, 79 a 78 per i Sixers mentre Chicago non riesce a far fruttare i 2.2 secondi restanti sul cronometro, nel delirio circostante.

In modo spietato si consuma un upset che getterà un’ombra pesantissima, seppur indirettamente, sul futuro di Rose e dei Bulls.

Iggy e compagni sapranno dar filo da torcere ai Celtics di Kevin Garnett, costringendoli a 7 sudatissime partite. Una serie che anni dopo funzionerà da sfondo nel film Uncut Gems, diretto da Josh e Benny Safdie, con la power forward a recitar la parte di sé stesso a fianco di Adam Sandler.

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Davide Torelli
Nato a Montevarchi (Toscana), all' età di sette anni scopre Magic vs Michael e le Nba Finals, prima di venir rapito dai guizzi di Reign Man e giurare fedeltà eterna al basket NBA. Nel frattempo combina di tutto - scrivendo di tutto - restando comunque incensurato. Fonda il canale Youtube BIG 3 (ex NBA Week), e scrive "So Nineties, il decennio dorato dell'NBA" edito da Edizioni Ultra.