The Klutch Mafia, la leggenda di Rich Paul

Rich Paul NBA
Copertina di Sebastiano Barban

Per molti è l’uomo venuto dal nulla, salito alla ribalta grazie all’amicizia fraterna con LeBron James. Per altri, e non solo opinionisti ma addirittura “GM che preferiscono restar anonimi”, si comporta nella lega come un boss mafioso.

Tra contraddizioni, polemiche ed un pizzico di ammirazione per lo status raggiunto, Rich Paul è oggi una delle eminenze grigie più influenti della NBA, se non la più influente. Anche e soprattutto grazie alla quasi simbiosi con l’ex numero 23 dei Lakers (ritornato al 6 per la stagione in avvio), per la quale in tanti lo definiscono “burattino”. E non potrebbe essere altrimenti, considerando le mire da plenipotenziario mai nascoste da parte di LBJ.

Succede in ogni offseason, per rinfrescarsi con l’arrivo della trade deadline: l’uomo nativo dell’Ohio, fondatore dell’agenzia Klutch Sports, rimbalza di bocca in bocca. Di dietrologia in dietrologia. E lui, con il suo assistito ed un parco clienti in progressivo aumento sia per numeri che per importanza, non fa niente per nasconderlo.

La storia è di quelle già sentite. Rich Paul nasce a Glenville, sobborgo di Cleveland e zona che sembra racchiudere quello che è prerogativa di ogni “buona novella black” che si rispetti: nonne che crescono i nipoti, voglia di fuggire senza prospettiva, genitori costretti al doppio lavoro per alimentare una flebile speranza, mentre ogni notte si spara per strada o ci si rinchiude nelle crack house. La madre combatterà a lungo contro una dipendenza, mentre il padre si alza alle prime luci dell’alba per gestire la più tipica delle “botteghe di isolato”. Spaccandosi metaforicamente la schiena, e facendo di tutto per permettere al giovane Rich di frequentare la Benedictine High School.

Una scuola cattolica, bianca, che offre al ragazzo un palcoscenico migliore per ricorrere i sogni di atleta (chiaramente, giocava a basket), ma soprattutto un livello di formazione superiore. Perché l’istruzione era tutto per il vecchio, l’unico modo per permettere a Paul Jr. di costruirsi un futuro importante. E lui già da piccolissimo sogna belle macchine, scarpe di marca, vestiti firmati.

Quando nel 1999 viene diagnosticato un cancro intestinale al padre, Rich Paul non ci pensa due volte a lasciare anzitempo l’Università di Akron, appena dopo la sua dipartita. Voglioso e carico di apprendere dalle persone, non sui libri. Deciso a costruire dal nulla un impero improbabile.

Poi, ad un certo punto, l’incontro casuale che cambia la sua vita. Quello che lo proietterà a recitar la parte del Sig. Klutch Sports, l’uomo che alimenta il tanto vituperato star power che tiene la NBA sotto scacco. Per molti un affronto dei grandi atleti di colore al sistema, da leggersi – seguendo le parole di Paul – nell’esemplificazione più tangibile della rivalsa nera in un mondo che ne ha sempre sfruttato i professionisti più talentuosi, adesso con il coltello dalla parte del manico.

Se leggete le sue interviste, o lo ascoltate parlare di sé e della sua missione, Rich Paul è uno dei principali fautori del cosiddetto “empowerment” dei giocatori neri, per troppi anni senza controllo diretto delle proprie carriere a vantaggio delle franchigie. Presiedute e determinate da bianchi. Oggi in grado di seguire la strada tracciata dalla famosa “The Decision” di LeBron James, e da una serie di forzature di autodeterminazione che han visto, negli anni, molto spesso il capo della Klutch Sports a manovrare le trattative. Giocando sulla comunicazione, con capacità di persuasione (si dice) uniche, ed una profonda consapevolezza di sé.

Eppure se parlate con Nerlens Noel – che recentemente ha intentato una causa pesante a lui e alla Klutch – le cose starebbero in modo un po’ diverso. In mezzo ad un cammino in perfetto equilibrio tra il lecito e l’illecito, sfociando talvolta palesemente nel tampering, esistono disegni differenti, spesso a vantaggio di quel “fratello non di sangue” che fu il suo primo rappresentato. Non a caso seguito con tutto lo sfarzo del caso nella bassa California, a Los Angeles, dove la Klutch ha sede legale e Paul la villa in cui vive.

Quell’agenzia che LeBron James, probabilmente con falsa ingenuità, definisce spesso “nostra”. Perché per quanto non appaia – e non possa apparire –non solo la ha caldamente foraggiata in avvio, ma probabilmente ne detiene il timone, giocando a suo vantaggio. È su questo che i principali detrattori di Rich Paul insistono.

Per questo è impossibile non volar metaforicamente indietro di qualche anno, per giungere all’aeroporto di Akron-Canton. In cui, leggenda narra, si consumò “il fattaccio” che rivoluzionò la vita del ragazzo di Glenville e che per certi versi, ha cambiato la NBA.

The Meet

Suona davvero come una leggenda, quella dell’incontro tra Paul e James, ma la storia si costruisce spesso con dettagli inesatti. Magari gonfiati, che si mischiano con le casualità del destino.

Immaginatevi quindi un LeBron diciassettenne, già finito sulla copertina di Sports Illustrated e poco tempo prima dal diventar prima scelta assoluta del Draft 2003, in attesa di un volo per Atlanta. Lo stesso per il quale il ventunenne Rich Paul sta pazientemente attendendo di salire, vestendo – particolare non da poco – una maglia vintage di Warren Moon (il fu quarterback degli Houston Oilers della NFL).

Credeteci o no, ma Rich Paul non ha la minima idea di chi sia il ragazzo che lo avvicina complimentandosi per il pezzo da collezione indossato. Lui, in quei tempi, vendeva maglie sportive vintage utilizzando il bagagliaio della sua auto come magazzino, e stava proprio recandosi in Georgia per prenderne di nuove al Distant Replay, un negozio specializzato con il quale sperava di avviare un business. Aveva già clienti importanti (tra cui Juwan Howard) e stava iniziando a metter da parte un discreto gruzzolo, letteralmente “facendosi da solo”, sfruttando doti imprenditoriali innate e soprattutto sapendo come farsi ben volere anche dagli sconosciuti.

James vuole saperne di più, Paul gli lascia il suo numero promettendogli uno sconto eventuale.

A questo punto, la storia di “The Meet” sembra quasi tingersi di rosa, come in un romanzo per adolescenti: il promettente talento della St.Vincent-St.Mary High School decide di chiamarlo non appena tornato dal suo viaggio. I due iniziano a parlare, a confidarsi, divengono amici. Entrambi attratti da comunanze di destino analoghe, come il crescere con un solo genitore, tra tutte le difficoltà del mondo e la voglia di emergere.

Si crea una connessione fortissima, che diviene “dipendenza economica univoca” quando James diviene professionista, e sceglie di stipendiare letteralmente l’amico. Fidandosi di lui, accettandolo nella sua crew personale.

Nel 2006 James licenzia il suo agente Aaron Goodwin per accasarsi con Leon Rose, con il quale “Little Rich” lavora fianco a fianco, dopo aver espresso all’amico la decisione del cosa essere definitivamente per lui: il suo agente personale. “Impara le basi, e quando sei pronto fammi sapere” sembra che gli abbia detto l’allora stella dei Cavaliers, tanto per farcire ancora di più la suddetta leggenda.

E Paul recluta “talenti” come Eric Bledsoe, Tristan Thompson e Michael Kidd-Gilchrist, costruendosi la nomea di ottimo negoziatore.

Dalle retrovie osserva preparazione e reazioni alla famigerata The Decision, nel 2012 bussa metaforicamente alla porta dell’amico dichiarandosi finalmente pronto, in grado di volare da solo e rappresentarlo.

E di lì a poco nasce la Klutch Sports, per la quale la partecipazione economica di LeBron appare scontata, tanto da far definire Paul nient’altro che un prestanome dello stesso giocatore. Anzi, una sorta di frontman da manovrare, per alimentare quello star power che la mossa di “portare il proprio talento a South Beach” aveva pericolosamente elevato ad un nuovo livello.

In ogni caso, in appena 10 anni Rich Paul passa dal vendere canotte vintage custodite nel bagagliaio della propria macchina, al rappresentare l’atleta più conosciuto e desiderato al mondo. Avviando così quel piccolo impero che al momento si fregiava della gestione degli amici Bledsoe, Thompson e pochi altri.

Tutto molto impressionante, ma serviva una mossa tanto epocale quanto il precedente cambio di casacca del Prescelto, per consacrarsi davanti al mondo NBA.

The Going Home

Dopo quattro Finals raggiunte in quattro anni a Miami (e due titoli vinti), LeBron James decide di testare la Free Agency 2014, con l’idea malsana di tornare in Ohio per portare quel Larry O’Brien Trophy a Cleveland, mantenendo una vecchia promessa. Chiaramente, dopo la risposta piccata del proprietario Dan Gilbert alla cosiddetta “The Decision” (attraverso quella che in modo poco fantasioso è divenuta nota come “The Letter”), c’era da avviare le contrattazioni eventuali in punta di piedi.

I Cavaliers erano in grado di riabbracciarlo, superando il trauma dell’abbandono? Avrebbero potuto costruire una squadra competitiva da subito, permettendo a James di restare sulla vetta della lega?

Nessuno che dirige una franchigia NBA, e che sia sano di mente, avrebbe potuto non rispondere affermativamente alle due domande. Ma per gestire il tutto, con l’aplomb giusto e le capacità di tessitore di trame che lo contraddistingue, non poteva esistere persona migliore di Rich Paul. LeBron lo investe della responsabilità del tutto, e Little Rich lavora ardentemente ad un incontro tra le due parti, che sfocia in un rendez-vous risolutore, in cui Gilbert si scusa per i toni rabbiosi della sua lettera, e James conferma le sua ambizioni.

L’11 luglio seguente, Rich Paul chiama telefonicamente il proprietario dei Cavaliers congratulandosi per l’accordo raggiunto: il giocatore più forte del mondo torna a casa. The Going Home. Da lì a poco, la prima scelta assoluta del Draft ad opera dei Cavs, al secolo Andrew Wiggins, finisce a Minnesota in una trade a tre squadre. In Ohio arriva Kevin Love, felicissimo di ritrovarsi a fianco dell’amico con cui ha vinto la medaglia d’oro Olimpica a Londra, con Kyrie Irving a funzionare da regista. Cleveland è già contender conclamata, e Rich Paul se la ride soddisfatto.

Da questo momento in poi, la sua ascesa sarà vertiginosa.

The Klutch Mafia

Quando James Harden – in immediato avvio della stagione 2019/20 – forza letteralmente la sua cessione da Houston alla volta di Brooklyn, una parte cospicua degli osservatori del mondo NBA risponde scandalizzata. La lega sottomessa allo star power al suo meglio, con i migliori giocatori del lotto che si cercano, si uniscono, creando nuovi superteam ed aumentando il gap tra le squadre in corsa. Indirettamente, per una forzatura simile, la responsabilità se la prende Rich Paul. Pur non essendo agente di The Beard.

E questo perché le immagini dell’affare Anthony Davis – sostanzialmente in sciopero per la parte conclusiva della sua ultima stagione a New Orleans desiderando la cessione – sono ancora vivide nella mente.

AD è nella scuderia della Klutch Sports, LeBron James lo ha reclutato progressivamente per averlo a suo fianco ai Lakers, e Paul lavora con pressioni sulla proprietà Pelicans, centellinando le uscite mediatiche per lasciare intendere alle altre franchigie che nessuna proposta sarebbe stata sufficiente.
Il suo assistito vuole i Lakers, e per quanto non sia né Free Agent né l’accordo appaia facile, lì finirà.
Accanto a James, palesemente in conflitto di interessi per molti, vincerà il suo primo titolo NBA nella bolla di Orlando poco più di un anno dopo.

Anche quando leggiamo – tra lo stupito ed il paradossale – le dichiarazioni di un Ben Simmons che vuole lasciare Philadelphia e minaccia di non presentarsi al training camp, a seguito di un’estate in cui è stato permesso che il suo valore di mercato crollasse dopo esser stato additato come capro espiatorio del fallimento 76ers, viene in mente Rich Paul e le sue strategie. Anche perché in questo caso parliamo di una delle punte di diamante della sua scuderia.

Perché vuoi per l’empowerment dei top player black caldeggiato, i successi ottenuti ed il modus operandi, nel frattempo la Klutch Sports si è portata dentro giocatori come Trae Young, Draymond Green, e non ultimo Zach LaVine. Per le malelingue, potenziali futuri compagni di James in maglia gialloviola.

E si, in giro si dice senza mezzi termini che l’influenza di Rich Paul proviene direttamente dal potere del suo atleta di punta (che dovrebbe detenere quote della Klutch più o meno nascoste), ma lui non si lascia troppo scalfire dall’insinuazione. Anzi, è capacissimo di marciarci sopra, ponendo giustificazioni “politiche” e continuando a creare la sua “legacy”.

Come per General Manager tipo Bob Myers, il successo di Little Rich ha spostato pesantemente il dibattito su quel che sia il background necessario per essere un ottimo agente di giocatori NBA. Grazie a lui – evidentemente non laureato, come sottolinea spesso per motivare il numero di detrattori – è divenuto chiaro che non è più sufficiente saper contrattare e negoziare per i propri clienti. Serve saper utilizzare nuovi metodi per esercitare il potere del rappresentato, sfruttando i media, giocando sul filo delle sanzioni e non lasciando niente al caso in materia di dichiarazioni o apparizioni.

Essere avvocato non è importante quando hai per le mani giovani talenti provenienti dalle periferie d’America, letteralmente da educare e svezzare, mettendoli in condizione di esercitare la propria forza decisionale. Lui si definisce dapprima amico, poi confidente ed infine ultimo consulente, mentre gestisce gli interessi economici dei suoi “uomini” allo stesso momento. Ed il fatto che si sia “fatto da solo”, partendo però da LeBron James, è il migliore dei curriculum possibili.

Si tratti o meno di un metodo che occhieggia con l’illecito, questa attitudine non solo conquista risultati, ma arriva addirittura a far scuola. Come quando porta con sé Darius Bazley nel 2018, che dopo aver deciso di giocare per la Syracuse University, torna sui suoi passi e ottiene un contratto ultra vantaggioso dalla New Balance, per una sorta di stage con il sapore della sponsorizzazione.

Niente di illecito fino a lì, o quantomeno fino a quando la NCAA non decide di inserire una regola che vieta agli atleti collegiali di utilizzare il servizio di agenti “non laureati”. Una regola che LeBron James commenta – immediatamente e ironicamente – la #RichPaulRule su Twitter: azione più che sufficiente perché venga revocata appena una settimana dopo.

Poco più di un anno dopo, Paul effettuerà il balzo in avanti definitivo, vendendo una partecipazione significativa della Klutch Sports alla United Talent Agency, una delle principali società di rappresentanza di Hollywood. Tanto grande da rappresentare personaggi come Angelina Jolie e Kevin Hart, oltre che corporation come Coca Cola o General Motors.

Con lui a capo della divisione sportiva il “disegno” iniziale appare quasi completo, a tutela di quanto i grandi atleti professionisti siano in grado di smuovere in materia di influenza pubblica. E Rich Paul è proprio lì per quello, per ricostruire il loro ego, forgiarne il potere e farlo valere a loro e suo vantaggio.

E volendo – tanto per far l’avvocato del diavolo – a vantaggio pure del suo primo, storico, cliente.

Un “agente moderno” che pensa per gli “atleti moderni”, sempre più attirati dalla necessità di essere qualcosa di “altro” dal semplice giocatore. Con mire diverse per il dopo parquet, che siano a livello di intrattenimento o addirittura politico (anche qui, ogni insinuazione ad un certo giocatore e ad un suo possibile sviluppo futuro, non è puramente casuale).

Che si tratti di impero, Klutch Mafia o qualsiasi altra roba che oggi è al servizio delle speranze di titolo dei Lakers – e domani chissà, forse del paese – a voi deciderlo.

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Davide Torelli
Nato a Montevarchi (Toscana), all' età di sette anni scopre Magic vs Michael e le Nba Finals, prima di venir rapito dai guizzi di Reign Man e giurare fedeltà eterna al basket NBA. Nel frattempo combina di tutto - scrivendo di tutto - restando comunque incensurato. Fonda il canale Youtube BIG 3 (ex NBA Week), e scrive "So Nineties, il decennio dorato dell'NBA" edito da Edizioni Ultra.