Preview Mavericks 21/22: simili in campo, diversi fuori

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Copertina di Sebastiano Barban

Arrivi: Moses Brown (trade), Sterling Brown (free agent), Reggie Bullock (free agent).

Partenze: Nicolò Melli (free agent), J.J. Redick (ritiro), Josh Richardson (trade).

Depth Chart

PG: Luka Dončić, Jalen Brunson, Frank Ntilikina, Trey Burke

SG: Tim Hardaway Jr., Sterling Brown

SF: Dorian Finney-Smith, Reggie Bullock, Josh Green

PF: Kristaps Porzingis, Maxi Kleber

C: Dwight Powell, Willie Cauley-Stein, Boban Marjanovic, Moses Brown

Luka, e Luka sempre, e fortissimamente Luka

Che originalità, eh? Eppure sì, si deve partire ancora una volta dallo sloveno. Anche se non sembra, in casa Mavericks quest’estate c’è stata una rivoluzione a tutti gli effetti, con gli addii di Nelson e Carlisle dopo svariati anni al timone a causare, almeno inizialmente, un piccolo terremoto.

L’avvento di Nico Harrison come General Manager e Jason Kidd come capo allenatore segnano ovviamente un nuovo corso tecnico e dirigenziale, ma anche la volontà (simbolica o meno) di un’intera franchigia di lasciarsi alle spalle anche gli ultimi residui di un passato soddisfacente ma ormai lontano per focalizzarsi totalmente sullo sloveno.

Difficile dar loro torto: Dončić è il favorito per la vittoria dell’MVP 2021/22 secondo quasi tutti i bookmaker, ma al di là del premio in sé non serve essere Zach Lowe per capire come Luka abbia tutte le carte in regola per affermarsi già quest’anno come uno dei 5-6 volti di questa generazione NBA.

Le sue caratteristiche sono fin troppo note ed è anche inutile soffermarcisi troppo sopra; l’impressione è che il peso dell’attacco ricadrà ancora una volta quasi interamente sulle sue spalle, un po’ per il suo stile di gioco e, soprattutto, per le mancanze di un roster che è sì migliorato durante l’estate ma senza raggiungere il punto di svolta.

Sarebbe comunque ingiusto delle primissime mosse di Nico Harrison: Josh Richardson ha ampiamente deluso le aspettative e la soluzione migliore per squadra e giocatore era senz’altro un addio, mentre Reggie Bullock viene da una buonissima stagione in quel di New York ed è il perfetto prototipo del famigerato 3&D da mettere vicino a Dončić.

Dei due Brown, Moses per il momento parte dietro almeno a Powell e Cauley-Stein nelle gerarchie, mentre Sterling è un po’ un oggetto misterioso, che potrebbe dare quel quid in più alla rotazione delle guardie grazie alla sua potenziale versatilità come anche sparire completamente dalle rotazioni dopo appena una manciata di partite. Considerando che vanno a sostituire un Redick praticamente mai visto in campo e un Nicolò Melli discreto ma poco di più, difficile lamentarsi, no?

Discorso un po’ diverso per quanto invece non è stato fatto dal front office di Dallas, ovvero l’aggiunta di un creatore secondario apparsa ormai impellente nell’atto II della sfida con i Los Angeles Clippers. Mettiamo subito in campo due postille impossibili da ignorare: lo spazio di manovra, tra salary cap e scelte al Draft, era pressoché nullo e la possibilità di arrivare a Goran Dragić prima delle trade deadline di febbraio rimane concreta, uno scenario in cui il problema sarebbe quantomeno ridimensionato.

In un’ottica hic et nunc, però, non si può in nessun modo ignorare la pesantezza del fardello che poggia sulle spalle di Dončić quando si tratta di tirare fuori un buon tiro per sé e per i compagni.

Cosa cambia con Jason Kidd

Chi segue il sottoscritto su Twitter lo sa: la sostituzione di Rick Carlisle con Jason Kidd non mi ha lasciato esattamente entusiasta. Inutile e sterile però fare le “vedove”, dunque meglio cercare di valutare pro e contro di un’assunzione che comunque vada porterà qualcosa di diverso nella Big D dopo tredici anni.

Un confronto a livello tattico sarebbe quasi offensivo per entrambi, data la reputazione di stratega eccelso di cui gode da anni Carlisle; è però innegabile come il rapporto tra l’allenatore e questo gruppo, Dončić in primis, fosse ormai logoro o forse mai completamente decollato. Kidd dovrà ripartire da qui, dalla costruzione di un rapporto di fiducia totale con la sua stella.

Alcuni segnali sono positivi: LeBron James sembra essersi trovato molto bene con Kidd durante l’esperienza dell’ex point guard come assistente ai Lakers, mentre Giannis Antetokounmpo lo ha pubblicamente ringraziato pochi minuti dopo aver vinto il titolo NBA ricordando i miglioramenti fatti con lui tra il 2014 e il 2018.

D’altro canto, però, alcuni passaggi tratti proprio dalla biografia del greco non sono propriamente lusinghieri. La definizione più calzante del modo di allenare di Kidd, secondo molti suoi ex giocatori, è “guerra psicologica”: non esattamente ciò che si auspica in una squadra professionistica.

Come sempre in questi casi è sbagliato emettere delle sentenze come “l’allenatore sa o non sa relazionarsi con i suoi giocatori”, “ il tal giocatore è ingestibile” e così via. Ogni situazione fa storia a sé, e i tifosi di Dallas non possono far altro che augurarsi che tra Kidd e Dončić quel qualcosa faccia clic nel modo giusto. In una NBA come quella odierna, con giocatori dall’ego sempre più ingombrante, vorrebbe dire essere già a metà dell’opera.

Tatticamente in attacco ci sarà sicuramente qualche modifica nei dettagli, ma sarà difficile vedere uno stravolgimento totale del canovaccio. Kidd ha dichiarato di volersi affidare in misura minore al tiro da fuori e ciò va tenuto in considerazione, ma il roster è stato costruito con un obiettivo ben chiaro: massimizzare le spaziature intorno al fenomeno col #77 sulla schiena.

Le prime indiscrezioni, peraltro, hanno confermato che dribble handoff e blocchi decoy, tanto cari a Carlisle, difficlmente spariranno totalmente dal playbook. I nuovi Mavericks potrebbero però premere più a fondo sul pedale dell’acceleratore: il ventiquattresimo pace su trenta della scorsa stagione mal si sposa col ricordo dei Bucks di Kidd, sempre pronti a spingere in transizione ad ogni occasione possibile.

Dončić non è noto per essere un fulmine di guerra e dovrà imparare a gestire le energie, ma abbinando buone doti di rimbalzista a passaggi a lunga gittata al laser non c’è nulla che gli impedisca di condurre le transizioni à la LeBron James. Ancor più importante, però, sarà il lavoro di Porziņģis (sì, siamo arrivati all’elefante nella stanza), che dovrà essere bravo a prendere posizione nel modo giusto nei primissimi secondi dell’azione.

A beneficiare di questo nuovo approccio ci sarebbe sicuramente anche Josh Green, sophomore che parte abbastanza indietro nelle gerarchie ma che sul finale della scorsa regular season ha fatto intravedere le sue potenziali doti da importante role player.

In difesa, invece, è lecito attendersi un cambiamento più radicale. Quando si pensa a Jason Kidd allenatore viene subito in mente quella difesa iper-aggressiva che tanto bene aveva fatto ai Bucks 2014-15 quanto male alle tre versioni successive. Auspicando ovviamente un po’ più di flessibilità da parte del coach, questo cambio di rotta potrebbe non essere una cattiva idea già a priori.

La drop coverage vista negli ultimi due anni era adeguata alle caratteristiche di una parte del roster (vedere alla voce Porziņģis, Kristaps), ma i risultati sono stati mediocri e dunque ben venga qualche nuova proposta, anche se non sono poche le cose che dovranno incastrarsi nel modo giusto.

Il giocatore da seguire: Kristaps Porziņģis (e chi altri sennò?)

Un po’ come Kevin Spacey in Se7en, che compare a tradimento a due terzi del film. Siamo di nuovo qui a parlare del lungo lettone e di come abbia ancora l’ultima parola sulle sorti di Dallas, che piaccia o meno. Le critiche feroci piovutegli addosso durante gli ultimi playoffs avevano sicuramente un fondo di verità, ma analizzando nel dettaglio la stagione di KP potreste scoprire cose inaspettate.

A livello di percentuali, ad esempio, la regular season 2020-21 è stata la migliore della carriera di Porziņģis, che mai aveva tirato così bene (e così tanto) al ferro e che è riuscito finalmente a far registrare una TS% superiore alla media della lega, diventando così un giocatore efficiente nel senso letterale del termine.

Anche per questo motivo vedere un realizzatore del suo talento relegato in angolo ad aspettare un pallone che non arriverà mai ha fatto storcere il naso a così tanti spettatori. Se da un lato si può imputare a coach Carlisle di aver man mano smesso di coinvolgerlo negli schemi e di affidargli tiri e possessi, viene anche difficile biasimarlo osservando il linguaggio del corpo e in generale le pessime sensazioni che lanciava il #6.

Quest’estate può essere un crocevia fondamentale per la carriera di Kristaps, che per la prima volta da quando è in America ha potuto lavorare in tranquillità sul suo gioco senza che ci fossero di mezzo infortuni o noie fisiche, con anche la prospettiva di poter ripartire da zero fin dal training camp dato il cambio di guida tecnica.

I punti chiave sono gli stessi di sempre: in attacco dovrà attaccare il ferro con molta più aggressività, senza temere il contatto e mostrando ad ogni singolo possesso la ferrea volontà di far valere dal primo all’ultimo tutti i suoi 221 centimetri di altezza. La distribuzione dei tiri tra post basso, triple e penetrazioni a quel punto verrà da sé, anche perché sul tocco ci sono ben pochi dubbi.

Forse però la difesa sarà addirittura la parte più importante: magari è tardi per sperare che non sia più carne da macello quando costretto a cambiare sulle guardie lontano da canestro, ma quei lampi di ottima protezione del ferro visti a New York dovranno tassativamente palesarsi anche in Texas, o a Dallas cominceranno a farsi qualche domanda un po’ più ampia.

Non vedo un KP lontano da Dallas nel breve periodo, ma senza un cambio di passo fin dalle prime battute ho la sensazione che la permanenza del lettone nella stagione 2022-23, per la prima volta, non sarebbe più così scontata.

Ambizioni e pronostici

Poche squadre possono contare su una certezza così solida come Luka Dončić: lo sloveno è l’assicurazione sulla vita dei Mavs, che fatto salvo l’arrivo delle cavallette di John Belushi raggiungeranno di nuovo i playoff senza troppi patemi. Le 50 vittorie sono un obiettivo ampiamente alla portata se si dovesse remare tutti dalla stessa parte fin da subito, visto e considerato che la proiezione precedente alla sospensione del campionato nel 2019-20 era intorno a quel dato.

Scrutando nella sfera di cristallo vedo i Dallas Mavericks concludere tra le prime quattro di una Western Conference tanto competitiva quanto incerta, conquistando il fattore campo e riuscendo poi a superare quell’agognato primo turno dopo 11 anni di attesa. Approdati alle semifinali di conference, però, i punti deboli vengono bruscamente messi in luce (non ultima l’incapacità di Kidd di effettuare aggiustamenti) e i Mavs perdono malamente in cinque gare dalla futura vincitrice dell’Ovest.

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Enrico Bussetti
Vive per il basket da quando era alto meno della palla. Resosi conto di difettare lievemente in quanto a talento, rimedia arbitrando e seguendo giornalmente l'NBA, con i Mavericks come unica fede.