I Celtics hanno ingabbiato Kevin Durant

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Copertina di Marco D'Amato

AVVISO AI NAVIGANTI: ogni singola parola contenuta in questo articolo è stata scritta prima di Gara 4, per cui vi sarei grato se evitaste commenti troppo cattivi nei confronti del sottoscritto in caso di dominio di Kevin Durant questa notte. Oppure siate cattivi ugualmente. D’altronde, che rischio volete che sia scommettere contro uno da 25.526 punti in carriera?

La NBA ha nel suo DNA la mistica e l’esaltazione dei duelli individuali. Da sempre quindi vi è la celebrazione del difensore point of attack, quell’arma segreta da sfoderare per fermare i migliori attaccanti del globo. Da Michael Cooper contro Larry Bird ad Hakeem Olajuwon contro David Robinson, da Dennis Rodman contro Karl Malone a Bruce Bowen contro Kobe Bryant e altri mille esempi.

Questa narrativa, seppure un po’ mistificata, poteva essere una chiave di lettura in una pallacanestro come quella di venti o trent’anni fa, ma la raffinatezza tattica dei giorni nostri, unita a cambi regolamentari come l’abolizione dell’illegal defense o l’introduzione dell’hand-checking, fa emergere sempre con più forza la verità: per fermare i migliori giocatori al mondo ci vuole una difesa di squadra di altissimo livello.

E quindi sono giustissimi i complimenti a Kawhi Leonard, ma furono gli interi Raptors a tarpare la ali a uno Giannis Antetokounmpo ancora un po’ acerbo nelle Eastern Conference Finals del 2019. Lunga vita alle straordinarie doti di Andre Iguodala, ma è il sistema difensivo architettato da Steve Kerr e Ron Adams ad aver fatto sudare sette camicie a LeBron James nei tanti incontri con gli Warriors.

Oggi, invece, è il turno di incensare la banda di Ime Udoka. Perché a leggere i dati del numero 35 dei Brooklyn Nets si penserebbe a chiunque, fuorché a Kevin Durant: 22 punti di media con il 36.5% dal campo ed il 51.7% di True Shooting. Il suo Offensive Box Plus-Minus, metrica avanzata utilizzata per quantificare l’impatto complessivo in attacco, è -1.3: per darvi un’idea il valore riferito all’intera carriera è 6.0, che si alza a 6.3 prendendo in esame i playoff.

Un’autentica caporetto per KD, che ha però una serie di motivazioni che val la pena di analizzare. Al netto di qualche suo indubbio demerito, però, i biancoverdi stanno facendo capire a tutti che quando si è parlato di loro come della miglior difesa dell’intera NBA gli argomenti erano piuttosto robusti.

Lo sfiancante lavoro lontano dalla palla

Il minuzioso lavoro di Boston inizia ben prima che Durant riceva il pallone. L’unico modo per limitare un giocatore che quando prende ritmo praticamente segna a comando è portarlo fuori dalla sua comfort zone, rompendo la sua routine e sfiancandolo pian piano. Tutti i Celtics sono molto concentrati nel disturbare i movimenti senza palla di KD: innanzitutto con i classici “colpetti” al limite della regolarità, dopodiché intralciando le sue traiettorie mettendosi letteralmente in mezzo e cercando di farlo ricevere ogni volta sempre un po’ più in là.

L’agilità di KD, a 33 anni e con una rottura del tendine d’Achille alle spalle, non è più giocoforza quella di un tempo. Inoltre, nonostante il suo altissimo punto di rilascio resti una chimera per chiunque, Boston ha corpi in abbondanza da mandargli contro: Tatum, Brown, Horford, Grant Williams e chi più ne ha più ne metta.

Non è un caso che KD abbia dimezzato i possessi a partita dal post, sua tipica mattonella, per aumentare gli isolamenti e i pick and roll giocati da portatore di palla, situazioni in cui può ricevere lontano da canestro e può respirare un attimo sfuggendo alla morsa biancoverde. Ciò che accomuna le situazioni di gioco, però, sono gli esiti: fallimentari in tutti i casi.

L’attenzione ai dettagli e la “cerebralità”

Quando si parla di difesa si citano sempre impegno e concentrazione, fattori sicuramente fondamentali e che in regular season possono addirittura far vincere partite intere. Quando si arriva in postseason e si ha davanti un giocatore del calibro di Durant bisogna però fare qualcosa in più e i Celtics ci stanno riuscendo divinamente. Un grande plauso va fatto sicuramente a Ime Udoka e ai suoi assistenti, capaci di architettare un sistema diabolico, ma sono poi i giocatori ad eseguire così bene.

Tatum e compagni sono attentissimi a non concedere mai un tiro in pull-up facile al #35, aggredendolo in maniera estremamente tenace quando mette giù la palla sul lato destro e ancor più quando si eleva per tirare.

La scelta dei raddoppi, poi, è chirurgica: capita che Boston salga alta ad aggredire, ma il più delle volte capita che l’uomo in aiuto inizi a staccarsi ancor prima che Kevin palleggi per poi rimanere anche per qualche secondo a metà.

Questo accade sul pick and roll, come si vede qua sopra, ma anche semplicemente se Durant è con la palla ferma in posizione di triplice minaccia. L’obiettivo è chiaro: mai concedere una linea di penetrazione facile e costringerlo a prendere decisioni nel traffico. Facile a dirsi, complicatissimo a farsi: serve intuito, preparazione e dei tempi d’esecuzione precisissimi per decidere quando staccarsi e che angolo assumere con il corpo. Finora, però, Boston è stata ricompensata: KD ha totalizzato 17 palle perse in 3 gare, per una media di 5.7 contro le 3.2 in carriera.

La chiave di tutto è la presenza in campo di Bruce Brown, che Boston ha deciso di battezzare o addirittura ignorare completamente nel corso di questa serie. I biancoverdi non hanno certo scoperto l’acqua calda: sono molte le squadre che affrontando i Nets hanno lasciato tantissimo spazio a Brown, che però è solitamente molto bravo quando si tratta di effettuare scelte in 4 contro 3 sullo short roll, ovvero quando il bloccante non taglia immediatamente verso canestro ma attende un passaggio sulla linea del tiro libero.

I raddoppi “mascherati” di Boston sono stati però molto difficili da interpretare finora e anche se Brown sta viaggiando a 18 punti di media col 50% dall’arco su 4 tentativi di media a gara, i Celtics sono probabilmente abbastanza tranquilli all’idea di conviverci, soprattutto sul lungo periodo.

Non solo Tatum, ma di sicuro tanto Tatum

Nonostante tanti suoi compagni si siano prodigati a turno a difendere per qualche tratto di gara su Durantula, l’uomo incaricato di fermarlo è sicuramente Jayson Tatum. A guardare i suoi numeri offensivi al buio si penserebbe ad un serie in cui in difesa è nascosto su un avversario poco pericoloso da qualche parte in angolo: 29.7 punti, 5 rimbalzi, 8 assist, 10 liberi tentati a gara e 58.4% di True Shooting. Non si è mai visto, tra l’altro, il numero 0 passare la palla così bene e creare così tante opportunità per i compagni, giocando a tutti gli effetti come uno dei migliori creatori di tutto il campionato.

Il lavoro di Tatum su Durant è invece straordinario. Sempre pronto a disturbarlo mentre palleggia, voglioso di passare sopra i blocchi e andare petto contro petto ogni volta, l’ex Duke si è addirittura preso il lusso di stopparlo sonoramente.

Tatum ha leve lunghe, è intelligente e ben piazzato: pur pagando qualche centimetro in altezza a Durant riesce quindi a tenergli testa per intere partite. Il discorso, a questo punto, si potrebbe addirittura ampliare: quanti giocatori ci sono in giro per la NBA in grado di girare a 30 punti di media con buona efficienza, giocare da iniziatore offensivo e marcare per quasi 30 minuti a sera il miglior attaccante del campionato con questi risultati?

Prendetevi pure del tempo per rispondere, ma se questi Celtics dovessero – com’è ormai quasi certo – superare brillantemente l’ostacolo Brooklyn, andrebbero a giocarsela assolutamente alla pari con i Milwaukee Bucks; e da lì in poi, beh, solo il cielo sembra essere il limite per loro. A quel punto il buon Jayson busserebbe con insistenza alla porta dell’Olimpo, dove risiedono le facce della NBA: sarebbe durissima tenerlo fuori.

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Enrico Bussetti
Vive per il basket da quando era alto meno della palla. Resosi conto di difettare lievemente in quanto a talento, rimedia arbitrando e seguendo giornalmente l'NBA, con i Mavericks come unica fede.