Dončić ha portato in braccio i Dallas Mavericks

luka doncic dio
Copertina di Matia Di Vito

Partiamo con un indovinello. Sono più i motivi che ha Dargen D’Amico per amare Milano o quelli che ha un tifoso dei Dallas Mavericks per amare Luka Dončić? Probabilmente la seconda, perfino se ci limitassimo a questo primo turno da poco conclusosi con una sconfitta in sette gare al cospetto dei Los Angeles Clippers. Un risultato sicuramente doloroso per la franchigia di Dallas e che presenta una serie di rimpianti: vedi Gara 3, con quel fulminante 30-11 iniziale, e Gara 6, in bilico fino al momento in cui Kawhi Leonard ha deciso di segnare a comando.

Difficile, se non impossibile, imputare però qualche colpa al fuoriclasse sloveno, che ha alzato ancora più in alto l’asticella disputando una serie sovrumana anche e soprattutto per il carico di responsabilità che è stato costretto ad assumersi. A parere di chi scrive, le prestazioni di Dončić hanno addirittura contribuito a svalutare il supporting cast anche oltre i suoi corposi demeriti, facendo percepire i suoi compagni ancora più di quanto già non fossero. Ma andiamo con ordine e cerchiamo come sempre di mettere alcuni paletti: a che punto è arrivato Dončić alla fine del suo terzo anno in NBA? Può fare ancora meglio di così?

La stagione di Dončić

Le cifre grezze le sputiamo subito fuori, in modo da toglierci il dente: 35.7 punti, 7.9 rimbalzi e 10.3 assist di media a partita. Cifre altissime, ma preventivabili: la Usage Percentage dello sloveno, statistica che misura il coinvolgimento di un giocatore nelle azioni della sua squadra, è stata di 40.43%, secondo dato più alto della storia dei playoffs. Inutile farla più complicata di quello che è: sostanzialmente ogni attacco di Dallas vedeva Dončić come protagonista, evidenziando prepotentemente un problema che Dallas si porta dietro anche dalla scorsa stagione. Sto parlando, naturalmente, della mancanza di un portatore di palla secondario, un giocatore con buone doti di ball handling e visione di gioco in grado di gestire una manciata di possessi nel corso della partita.

Ad inizio anno avevo accolto con entusiasmo l’arrivo di Josh Richardson, credendo che le sue doti come playmaker secondario avrebbero potuto rendere più variegato l’attacco e far riposare di più Dončić, contando inoltre in un miglioramento delle sue percentuali dall’arco se inserito in un contesto con ampie spaziature. Nonostante non mi senta di incolpare Donnie Nelson per uno scambio sensatissimo su carta, il campo ha detto tutto il contrario: Richardson, salvo in qualche sporadica prestazione ad inizio anno, non è mai davvero riuscito ad essere un valore aggiunto per i Mavs. I tiri da tre punti sono entrati addirittura meno dello scorso anno ed il suo minutaggio è calato a picco nei playoffs, contesto che tende a punire senza pietà difetti così evidenti.

Anche in difesa, notoriamente la specialità della casa, il n°0 è stato buono, forse ottimo a tratti, ma non in grado di dare la svolta richiesta. Probabilmente in un’altra serie, contro giocatori come Damian Lillard, Stephen Curry o Devin Booker, sarebbe tornato più utile, ma Leonard e George sono troppo grossi per essere limitati efficacemente da Richardson, che dunque è stato lasciato per lunghissimi tratti in panchina senza troppi rimpianti, con Luka rimasto solo soletto.

Sembra quasi incredibile che Dončić si sia limitato ad un 12.8% di Turnover Percentage, dato tutt’altro che elevato, e che la sua True Shooting Percentage si sia assestata sul 57.2%. Nonostante un carico offensivo spropositato ed uno stile di gioco decisamente accentratore, dunque, Luka Dončić è stato a tutti gli effetti un giocatore efficiente nella serie contro una squadra che meno di 12 mesi fa era considerata tra quelle meglio attrezzate per difenderlo.

Un dato passato forse un po’ in sordina è stato quello relativo al tiro da tre punti: Dončić, tiratore da 33.1% in carriera, ha segnato il 40.8% delle triple che ha tentato nella serie. Il problema, per tutti gli altri giocatori di pallacanestro del globo, è che questo dato è relativo ad una media di quasi 11 triple tentate a gara, che nel 93.5% dei casi erano non assistite. Giudicate un po’ voi.

Come specificato qui sopra, il suo step-back ha tolto dal campo in pochissimo tempo quell’Ivica Zubac che nella bolla di Orlando aveva costituito una discreta kryptonite per il numero 77 e che era considerato un’arma tattica fondamentale. Il centro bosniaco, che negli ultimi due mesi di Regular Season era sempre partito titolare giocando oltre 25 minuti a gara, è arrivato a disputarne appena 5 in Gara 6 e 2 in Gara 7: nel giro di nemmeno un anno, Dončić ha letteralmente trasformato Zubac da risorsa a problema. Poi ci sarebbe Patrick Beverley, ma…è davvero necessario parlarne?

A dirla tutta, però, nel corso della serie i Clippers sono riusciti a trovare una valida risposta per riuscire quantomeno a fronteggiare lo sloveno: si tratta del francese Nicolas Batum. L’ala trentaduenne, giocatore intelligente ed atletico, è stato per tutto l’anno il terzo giocatore più importante della squadra di Tyronn Lue e contro i Mavs le sue lunghe braccia hanno risolto una quantità innumerevole di problemi: date un’occhiata alle percentuali di Luka quando Nic è in campo o in panchina.

Batum in campoBatum fuori dal campo
Restricted Area72.7%83.3%
Pitturato (no Restricted Area)40%50%
Media 46.7%66.7%
Tre Punti38.6%45.2%
Non sempre correlazione vuol dire causalità, ma il dubbio viene…

Discorrere sulle doti di passatore di Dončić rischia di essere quasi banale: basta, ancora una volta, qualche numero per capire a cosa siamo di fronte. La sua Assist Percentage in Regular Season era stata uno straordinario 44.1%, ma in postseason si è alzata di dieci punti percentuali esatti: nei minuti in cui Luka è stato in campo, in più di metà dei tiri segnati dai Mavericks l’ultimo passaggio è stato il suo. 17.3 i potenziali assist, dietro solo a Russell Westbrook e Trae Young.

Non solo Luka ha trattato praticamente tutti i palloni, ma è anche riuscito a pescare sempre il compagno libero in qualunque situazione. I raddoppi messi in atto dai Clippers sono stati solo saltuariamente efficaci: con buona pace di Harden e della miglior versione di Trae Young, ad oggi è estremamente plausibile che uno sloveno di 22 anni sia il miglior creator dell’intera lega.

I margini di miglioramento

Sembra un discorso paradossale da fare per un giocatore così giovane, ma la sua completezza tecnica, unita a maturità e consapevolezza da veterano e ad un ruolo da protagonista sin dalle primissime battute della sua carriera ci hanno spinto a farci già più di una volta la domanda: davvero Luka può giocare meglio di così? Sembra incredibile a dirsi ma sì, può. Si può partire da un aspetto banale, già citato più e più volte, ma purtroppo per lui cruciale, soprattutto nella NBA moderna: i tiri liberi. La linea della carità non è mai stata una specialità della casa, ma se pensavate, legittimamente, che il 73.5% fatto registrare fin qui da Luka in carriera fosse un po’ poco per uno con quelle mani, sappiate che contro i Clippers il Nino Maravilla ha convertito i liberi con appena il 52.9%. Sono numeri shaquilleschi e l’accostamento ad un giocatore con quel tocco stona anche a livello visivo. Eppure la realtà è questa.

Si tratta probabilmente di trovare una routine fissa e di lavorare soprattutto, per non dire soltanto, sull’aspetto psicologico. Nella NBA di oggi, ogni primo violino degno di questo nome dev’essere in grado di conquistarsi con regolarità tiri liberi e di segnarli con buone percentuali. Avrò già scritto un centinaio di volte questa frase quest’anno, probabilmente perché ho seguito i Celtics di Jayson Tatum che, al contrario di Dončić, ha molti più problemi nel primo aspetto rispetto al secondo. In ogni caso, non si scappa: o ti chiami O’Neal di cognome o si passa per forza da qui per entrare definitivamente nel gotha di questa lega. Non so voi, ma io Luka con una TS% superiore al 60% me lo immagino più o meno così.

Una questione che ad oggi appare marginale ma che potrebbe avere risvolti non banali è il rapporto con gli arbitri. Con 17 falli tecnici presi in stagione Dončić è andato vicinissimo a vincere questa ingloriosa classifica, totalizzandone appena uno in meno di Dwight Howard. Al di là del numero di sanzioni, però, lo sloveno ha il fastidiosissimo vizio di protestare platealmente quasi ad ogni azione, e oltre ad un discorso “etico” c’è da considerare che il cosiddetto “trattamento da superstar” va conquistato sul campo. Un rapporto più sereno con i direttori di gara favorirebbe sicuramente anche lo status con cui lo sloveno viene visto dagli addetti ai lavori, dettaglio solo apparentemente marginale in una lega con così tanto potere in mano ai giocatori.

Luka Dončić sta riuscendo a fare di vizi di forma virtù, portando il suo stile di gioco così pretenzioso a livelli davvero elevati. La statistica perfetta, in grado di attestare con precisione la superiorità di un giocatore rispetto ad un altro, non esiste e mai esisterà, ma il Box Plus-Minus può essere un accettabile compromesso per valutare il contributo tout-court di un giocatore. Gli unici giocatori ad aver disputato una run di playoffs con un BPM maggiore di 11.77, il valore fatto registrare da Dončić nella postseason 2021, sono LeBron James, James Harden, Michael Jordan, Hakeem Olajuwon, Kawhi Leonard, Julius Erving, Dwyane Wade, Kareem Abdul-Jabbar, Grant Hill, Damian Lillard e Penny Hardaway. Escludendo lo sfortunato Hardaway sono tutti Hall Of Famers, o giocatori che hanno approssimativamente il 100% di possibilità di diventarlo. Stiamo a tutti gli effetti assistendo alla storia, scritta in diretta davanti a noi: a questo punto non ci resta che vedere quale direzione prenderà.

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Enrico Bussetti
Vive per il basket da quando era alto meno della palla. Resosi conto di difettare lievemente in quanto a talento, rimedia arbitrando e seguendo giornalmente l'NBA, con i Mavericks come unica fede.