Preview Celtics 21/22: il vecchio e il nuovo

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Copertina di Nicolò Bedaglia

Arrivi: Bruno Fernando (trade), Juan Hernangómez (trade), Al Horford (trade), Enes Kanter (free agent), Josh Richardson (trade), Dennis Schroeder (free agent),

Partenze: Moses Brown (trade), Carsen Edwards (trade), Evan Fournier (sign and trade), Luke Kornet (free agent), Semi Ojeleye (free agent), Tristan Thompson (trade), Kemba Walker (trade)

DEPTH CHART

PG: Dennis Schroeder, Payton Pritchard

SG: Marcus Smart, Josh Richardson, Romeo Langford

SF: Jaylen Brown, Aaron Nesmith

PF: Jayson Tatum, Grant Williams, Juan Hernangómez, Jabari Parker

C: Al Horford, Robert Williams, Enes Kanter, Bruno Fernando

Tatum e Brown, Brown e Tatum: i Celtics dei J’s

Difficile, per non dire impossibile, scegliere un altro punto di partenza. Vero, è cambiato il General Manager, con il rookie Brad Stevens protagonista fin qui di un discreto operato già analizzato in questa sede. Anche l’allenatore, per forza di cose, è un volto nuovo e anch’esso vergine nel ruolo, ragion per cui si guarderà ad Ime Udoka con più curiosità che certezze. Gira e rigira si torna sempre da loro, due giocatori da cui è sempre facile rimanere intrigati.

Jayson Tatum e Jaylen Brown si apprestano ad iniziare rispettivamente il quinto e sesto anno in NBA con più di una soddisfazione messa alle spalle, eppure fanno 48 anni in due e sono il principale, per non dire unico, motivo per considerare ancora i Celtics un pericolo per le altre 29 franchigie sul medio periodo, nonostante qualche cocente delusione negli ultimi anni.

Nel 2019-20 era un sospetto, nel 2020-21 rimanevano ormai pochi dubbi e ad oggi sarebbe un’eresia pensare il contrario: gioie e dolori di Boston passano prima di tutto dalle (dolci) mani di Tatum. Liberato dagli ingombranti Irving e Walker, il prodotto di Duke, già realizzatore sopraffino e multiforme, è chiamato a fare un salto in avanti come creatore di gioco e questa volta la richiesta non è più negoziabile.

I biancoverdi sembrano aver fatto una scelta precisa nella costruzione della squadra, rinunciando ad avere una point guard tradizionale (ad eccezione di Pritchard) e puntando su tanti giocatori in grado di passare e condividere il pallone. Marcus Smart sarà probabilmente il prescelto come iniziatore di gioco, ma il primo requisito per il bravo creatore è essere una credibile minaccia come realizzatore. Su questo aspetto pochi meglio di Tatum, capace di colpire ripetutamente dalla distanza, ma anche sufficientemente attrezzato per chiudere al ferro.

Sarebbe disonesto non riconoscere i miglioramenti come passatore, diventati evidenti nell’ultimo anno e mezzo: Tatum fa sempre un passettino in avanti in termini di assist e pur non avendo lampi di genio in termini di visione riesce ormai a trovare l’uomo libero con continuità in situazioni standard.

Avrete ormai la nausea di leggerlo, ma la strada per l’olimpo NBA per un giocatore con l’archetipo di Jayson passa obbligatoriamente dalla stazione “conquistare un alto numero di tiri liberi”. Ebbene, sono felice di annunciare che la mia personale fiammella della speranza è stata ufficialmente accesa nel finale della scorsa stagione. Negli ultimi due mesi di Regular Season e nella breve esperienza di postseason contro Wizards e Nets Tatum ha fatto vedere in parecchie occasioni la potenziale crudeltà del castigo che può infliggere alle difese.

Il nocciolo della questione è la continuità: si alternano serate da 10 o più viaggi in lunetta ad altre con 2 o 3: con qualche progresso nel decision making, dove una maggiore esperienza non potrà che aiutare, sono moderatamente ottimista nel prevedere per Jayson Tatum una prima annata da outsider pericoloso nei candidati all’MVP.

L’altro, invece, si porta dietro intanto un’operazione alla mano effettuata lo scorso maggio che gli ha impedito di disputare i playoffs per la prima volta in carriera. Al termine della stagione 2019-20 Brown mi aveva definitivamente convinto di poter essere un secondo violino credibile, esaltato sì dal contesto ma anche capace, potenzialmente, di brillare di luce propria. A distanza di appena un anno JB è andato ben oltre le mie aspettative: ad uno slasher di prim’ordine si è sostituito un giocatore molto più versatile offensivamente, che quando ha dovuto gestire maggiori responsabilità in attacco con Tatum assente si è esaltato invece di andare in difficoltà. Al di là delle percentuali nude e crude è strabiliante la fiducia con cui si è preso tiri in pull-up da ogni distanza.

I sempiterni buckets si sono logicamente presi la maggior dose di attenzione, ma il playmaking merita sicuramente una menzione. Brown rimane confusionario in troppe occasioni, certo, ma anche in questo caso le maggiori responsabilità non hanno accentuato il problema. Jaylen vede meglio i compagni e li serve con passaggi di miglior qualità, scenario quasi impensabile anche solo due stagioni fa. Il problema più grande rimane la propensione alle palle perse, rimasta costante lungo tutta la carriera.

Fondamentale sarà inoltre la questione infortuni: JB convive da sempre con qualche piccolo acciacco di troppo e nell’ultima stagione le ginocchia, a detta sua, lo hanno limitato in più di un’occasione. Immaginate cosa sarebbe un ibrido tra il primo Brown, con la dinamite nei polpacci, e l’ultima versione con un range di tiro più ampio…

Udoka e rotazioni intriganti, ma complesse

Facciamo il solito giochino: com’era il mondo nell’ultima stagione senza Brad Stevens come capo allenatore dei Celtics? Correva l’anno 2013, i Miami Heat dell’MVP LeBron James e Dwyane Wade battevano in finale gli Spurs al termine di sette epiche partite e Boston, guidata da Pierce e Garnett all’ultimo ballo usciva al primo turno contro i New York Knicks. Una vita fa.

Stevens, all’epoca apprezzato allenatore collegiale e poco più, è diventato in questi otto anni una delle migliori menti cestistiche della intera NBA, con il suo nome ormai sinonimo di gioco di squadra e coriacea difesa. Sostituirlo non sarebbe stato facile per nessuno e sicuramente non lo sarà per un esordiente nel ruolo, ma se c’è un assistente che può pagare un po’ meno lo scotto del noviziato questo è sicuramente Ime Udoka. Cresciuto (che strano!) alla scuola di Gregg Popovich e con esperienze anche a Philadelphia e Brooklyn, l’ex ala di origini nigeriane è indicato da anni come uno degli assistenti più quotati in assoluto, combinando ottima comprensione del gioco a grandi capacità relazionali con i giocatori.

Non avendo alcuna indicazione sul suo stile di gioco prediletto l’esercizio di predizione delle rotazioni è a dir poco arduo, ma ci si prova comunque. Scontata la titolarità dei due J’s e al 99% quella di Marcus Smart viene difficile pensare che i Celtics decidano di privarsi di Al Horford, giocatore tatticamente troppo utile nonostante l’età. Si resta quindi con un solo dubbio e qui la situazione inizia a farsi interessante, con almeno tre credibilissime candidature.

Molti giornalisti intorno ai Celtics propendono per Josh Richardson, arrivato in estate dai Dallas Mavericks. La difesa biancoverde diventerebbe in questo caso una sorta di muraglia: forza, allenatori avversari, scegliete se affidarvi alle vostre guardie contro Smart e Richardson, alle ali contro Brown e Tatum o al centro contro Horford! Trovate un punto debole!

JRich è un discreto passatore e la circolazione della palla ne gioverebbe sicuramente: nessun “regista” vero ma cinque giocatori generosi. Il rovescio della medaglia sarebbe la scarsa capacità di crearsi un tiro, principalmente causata da carenze nel ball handling, e soprattutto le spaziature. Invece di migliorare, il tiro da tre di Richardson è sembrato regredire negli ultimi due anni e i Celtics avrebbero una coppia di guardie appartenenti alla categoria dei “a volte la mettono, ma farli tirare con continuità anche no”. Non il massimo per un attacco di livello.

Il miglior giocatore complessivamente è con alta probabilità Dennis Schroeder, che a far canestro invece non ha mai avuto troppi problemi. Da tre punti non benissimo neanche lui, ma tutto ciò che accade dentro l’arco non ha grossi segreti per il tedesco. Necessita di qualcuno di fianco che si faccia carico della maggior parte dei compiti di creazione e Tatum e Brown, come già evidenziato prima, potrebbero corrispondere all’identikit, ma la linea tra i Miami Heat 2020 e una squadra in cui non sono mai chiari i ritmi del gioco è più sottile di quanto sembri. In difesa nel suo ultimo anno ai Lakers è stato assolutamente positivo e questo alza non di poco le sue quotazioni, ma non sono ancora convinto che la scelta migliore sia inserire una quarta/quinta opzione che vuole così tanto la palla in mano e che nei finali di partita fa spesso danni.

L’opzione un po’ più anacronistica ma comunque interessante è Robert Williams, con un ovvio slittamento di Horford da 4. Sulle prime potreste storcere il naso come ho fatto io, ma a pensarci bene, perché no? Al Horford è un tiratore da oltre il 36% da 3 in carriera e con il passare dell’età potrebbe giovargli un po’ meno tempo sotto canestro a battagliare. I Celtics disporrebbero di un tonnellaggio notevole e avrebbero a disposizione un rollante vero, oltre all’ovvio hype di vedere il più intrigante dei “due” Williams con più responsabilità. Un attacco forse meno raffinato e poggiato maggiormente sulla forza bruta, non necessariamente peggiore. Il leitmotiv però è sempre quello: davvero vorreste restringere ulteriormente il campo e ridurre le linee di passaggio al dynamic duo?

Davvero tante opzioni ma nessuna che si incastra alla perfezione, un’arma a doppio taglio che Udoka dovrà essere bravo a brandire nel modo migliore. La panchina, invece, è stata il grande tallone d’Achille della scorsa stagione e appare un po’ più ricca di talento ma con non meno interrogativi del quintetto titolare. Se Payton Pritchard rappresenta il classico uomo d’ordine dalla panchina e Aaron Nesmith è quel tiratore dinamico che nell’arco della stagione torna sempre utile, nello spot di 4 c’è più confusione che in metropolitana.

Tra Grant Williams, Juan Hernangómez e Jabari Parker si potrebbe tranquillamente girare Una poltrona per tre e di sicuro uno è di troppo in una rotazione fissa. Il primo è in un’ascesa più lenta del previsto, il secondo galleggia da anni senza mai realizzarsi del tutto e il terzo sta cercando di frenare un precoce declino: Udoka riuscirà a cavare fuori il meglio da almeno uno dei tre? Ci sarebbe anche Kanter, difficile da considerare come un semplice terzo centro, ma ci sembra che i rebus, finora, siano abbastanza.

Il giocatore da tenere d’occhio: Marcus Smart

Una narrativa non particolarmente originale: qual è il primo giocatore che non è un’assoluta certezza, procedendo in ordine discendente di valore? Qui però si è soliti incontrare giocatori giovani, ad alto potenziale, non un ventisettenne che ha ormai pregi e difetti tutto sommato definiti. Eppure ancora una volta Marcus Smart sarà per larghi tratti di stagione l’ago della bilancia di Boston. Le indiscrezioni di questi mesi estivi vedono Udoka e il suo staff intenzionati a dare molta palla in mano a Smart, che potrebbe agire da vera e propria point guard con continuità per la prima volta in carriera. Scelta curiosa: quando si pensa al n°36 arriva subito un brivido adrenalinico lungo la schiena. Energia inesauribile sui due lati del campo, che si traduce nel tirare senza esitazioni nonostante una mano discreta ma niente di più e nel tentare con successo giocate difensive di capitale importanza.

Smart nasce in realtà come playmaker al college e sicuramente è in grado di passare la palla molto bene, ma il suo più grosso limite è la tendenza a voler strafare quando caricato di responsabilità. Un bel carico di aspettative dunque, amplificate anche dalla probabile nomina a capitano ex aequo con Horford. Marcus dovrà apprendere in fretta il ruolo di generale in campo in questo esperimento che potrebbe non avere vie di mezzo: grande sorpresa o disastro.

Ambizioni e pronostici

Dando uno sguardo finale in Massachussets sembra che i biancoverdi, pur innovandosi, abbiano cercato la soluzione guardando alla loro tradizione: unità d’intenti, squadra dal grande agonismo e difesa di alto livello. La nomina di Udoka, giovane e vicino ai suoi giocatori, la conferma del nucleo “storico” ed il ritorno di un autorevole veterano come Horford fanno pensare che i Celtics torneranno ad essere una squadra che lascia l’anima sul parquet ogni sera e la difesa è davvero interessantissima. Difficile trovare un singolo anello debole nei primi dieci (!) giocatori della rotazione che sembrano anche amalgamarsi bene tra di loro tra capacità di comunicazione, difesa point of attack e lontano dalla palla. Non c’è apparentemente niente che impedisca di pronosticare i Celtics come una delle migliori 5 difese dell’intera NBA.

Diverso invece è il discorso dell’attacco, dove non sono poche le cose che dovranno girare contemporaneamente nel verso giusto. La sensazione è quella di una buona dose di talento non perfettamente distribuita e il rischio di avere una fase offensiva a tratti un po’ stagnante.

Boston si appresta a giocarsi le sue carte in un Est davvero molto talentuoso. Difficilissimo pensare di scalzare una delle prime tre classificate dello scorso anno ed è probabile che almeno una tra Heat e Hawks arrivi davanti ai Celtics togliendo loro il fattore campo. I biancoverdi dovranno tornare quella squadra rognosa per ogni avversario e avere come obiettivo una sicura qualificazione ai playoffs, senza passare dal play-in. Arrivati lì, lo sgambetto al primo turno sarebbe tutt’altro che impossibile.

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Enrico Bussetti
Vive per il basket da quando era alto meno della palla. Resosi conto di difettare lievemente in quanto a talento, rimedia arbitrando e seguendo giornalmente l'NBA, con i Mavericks come unica fede.