4 giocatori in cerca di rilancio

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Copertina di Edoardo Celli

Ai nastri di partenza di ogni stagione, a tenere spesso banco tra gli appassionati c’è la gettonatissima discussione su quali giocatori potrebbero rilanciarsi dopo una parentesi di carriera deludente.

Abbiamo provato a selezionarne quattro, scegliendone due che cercheranno il riscatto nella stessa squadra della scorsa stagione e due che hanno chiuso in valigia le proprie delusioni, sperando che un cambio di aria e contesto possa davvero essere il motore per una nuova partenza.

Allo stesso modo abbiamo scelto di considerare giocatori di età diverse: un giovane che dopo aver volato vicino al sole si è trovato costretto a fare un bagno di umiltà, due giocatori teoricamente ormai nel loro prime che si sono ritrovati schiacciati da contratti troppo onerosi, da una mentalità poco adatta al livello della NBA o semplicemente da un calo nelle prestazioni una volta raggiunto lo status tanto bramato, e un veterano giunto all’ultima chiamata.

Tyler Herro

Dopo i sorprendenti playoff del 2020, Herro era chiamato a dimostrare di poter garantire lo stesso (altissimo) livello nelle proprie prestazioni con continuità, in modo da affermarsi al fianco di Adebayo come pietra angolare dei nuovi Heat. Missione parzialmente fallita e giocatore rimandato a settembre (anzi, ottobre), ma non tutto è da buttare e i presupposti per una rapida ripresa sono più che buoni.

Tyler ha infatti sofferto le nuove responsabilità da point guard che Spoelstra gli ha affidato anche perché non del tutto nelle sue corde: la sensazione è che il suo coach abbia voluto esplorare il suo potenziale vista anche l’età avanzata di Dragić, ma si è dovuto temporaneamente arrendere davanti al fatto che “gallina vecchia fa buon brodo”, restituendo le chiavi del gioco allo sloveno.

Alle questioni tattiche si sono ben presto affiancate anche preoccupazioni sul piano caratteriale: le luci della ribalta – unite alla vita notturna di una città come Miami – hanno distratto in maniera evidente dal campo il ventunenne, che è sembrato per larghi tratti della stagione poco interessato alla palla a spicchi, non facilitando di certo il lavoro allo staff della franchigia.

Dall’altro lato non bisogna però esagerare nei giudizi, il ragazzo “si farà”, è giovane e come tutti i giovani può commettere delle leggerezze e degli errori. Gli Heat possono contare su un’organizzazione di altissimo livello e sono abituati a gestire situazioni di questo genere, quindi non ci sono dubbi sul fatto che un deciso cambio di rotta potrebbe essere all’orizzonte.

Tornando al basket giocato, una volta sgravato da compiti a lui non congeniali Herro si è piano piano ripreso ed è andato in crescendo nel finale dell’annata, non raggiungendo mai i livelli della stagione precedente ma mostrando comunque un ottimo potenziale da sesto uomo alla guida della second unit.

Le sue letture e il suo ball handling – escluso qualche sprazzo sparso – sono sotto la media se paragonati al livello delle altre point guard, ma in pick and roll può dire la sua, sfruttando i blocchi dei compagni per evitare situazioni di isolamento.

Il dramma piuttosto si è consumato (e continuerà a consumarsi nel corso della sua carriera) nella metà campo difensiva, dove il giovane nativo di Milwaukee non ha la velocità, il fisico, la comprensione e il giusto atteggiamento per rendersi quantomeno neutrale, finendo per essere la vittima designata dagli avversari nella ricerca del mismatch.

Un Herro non in palla in attacco rischia quindi di diventare una tassa difensiva troppo grande da sostenere per la propria squadra, motivo per cui Coach Spoelstra ha presto deciso di limitare il ruolo del suo sophomore alla ricerca della quadra perfetta.

In attacco gli manca invece il primo passo per bruciare i migliori difensori avversari, ma la possibilità di giocare contro le riserve gli ha permesso di patire meno questa differenza di atletismo nella seconda parte dell’anno. Nella nuova stagione potrà quindi partire già da una situazione a lui congeniale, senza rimanere immediatamente schiacciato da esperimenti legittimi ma fallimentari.

Non va sottovalutato tra l’altro l’impatto della prima offseason completa vissuta da Herro: il suo anno da rookie è coinciso con l’anno più particolare della storia della NBA, che ha eliminato di fatto la possibilità per i giocatori di lavorare in estate sul proprio fisico e sui vari aspetti del proprio gioco. Quest’anno Tyler si è presentato con un fisico più definito e in preseason ha mostrato qualche miglioramento nelle letture, lasciando presagire la possibilità di un deciso rilancio.

Quando si troverà a giocare con la palla in mano, i suoi compagni dovranno quindi portargli blocchi di qualità per giocare un pick and roll o per permettergli di creare separazione per il suo tiro mortifero, in modo da ridurre il deficit fisico che pagherebbe giocando in uno contro uno contro il suo diretto marcatore. Lo stesso varrà per il gioco in transizione, dove probabilmente gli Heat giocheranno spesso drag o altre varianti.

Nei minuti in campo insieme ai titolari al posto di Robinson o Lowry potrebbe invece sfruttare i propri movimenti off ball per costruirsi dei tiri ad alta percentuale, leggendo gli spazi lasciati liberi dalla difesa e migliorando in questo modo lo spacing della squadra, fondamentale per via delle caratteristiche di Butler e Adebayo.

Vista l’età e le prestazioni di giusto un anno fa, sembra difficile immaginare un Herro ancora in caduta libera nella sua terza stagione nella lega, anzi, quella sulla sua ripresa sembra essere una scommessa relativamente sicura. Saranno necessari da parte sua un cambio di atteggiamento e una piena presa di coscienza del proprio ruolo in campo e fuori, ma la presenza di Coach Spoelstra dovrebbe permettere a tutti i fan degli Heat e di Tyler di dormire sonni tranquilli.

Kristaps Porziņģis

Dovremmo probabilmente trovare qualcosa di meglio da fare che continuare a parlare di Kristaps Porziņģis. C’è da dire, però, che anche il lungo lettone ci ha messo abbondantemente del suo negli ultimi anni.

Com’è possibile, quindi, che l’ex unicorno indicato da tanti come giocatore dallo skillset futuristico ed erede designato di Dirk Nowitzki sia passato in così poco tempo ad essere spesso e volentieri oggetto di scherno da parte degli appassionati?

Innanzitutto è necessario un po’ del cosiddetto debunking: KP è stato probabilmente sopravvalutato agli inizi della carriera. Entrato in sede di Draft come un prospetto high risk-high reward, molti tifosi e addetti ai lavori consideravano la sua bilancia pendente maggiormente verso una cocente delusione: d’altro canto ci ricordiamo ancora tutti la “calorosa” accoglienza dei tifosi dei Knicks, giusto?

Un’annata da rookie inaspettatamente solida, una piazza come New York e un archetipo così particolare: con questi ingredienti il cocktail è stato facilmente componibile. La realtà era un po’ più complessa, con un anno da sophomore senza particolari progressi e un ruolo definitivo in campo ancora da trovare.

Dopodiché la caduta: l’infortunio a metà di un terzo anno molto interessante, tempi di recupero sempre più lunghi, l’idillio con la squadra definitivamente rovinato. Dopodiché la cessione ai Mavericks a comporre, nelle intenzioni, un dynamic duo europeo di altissimo livello con Luka Doncic.

Per vari motivi non è andata come sperato, tra nuovi malanni fisici, un forzato adattamento a secondo violino e un’autentica idiosincrasia per le sportellate sotto canestro, non il massimo della vita per un lungo NBA di 221 centimetri.

Come già sviscerato nella preview stagionale sui Mavericks, una sua ripresa è vitale per le fortune della squadra e probabilmente un nuovo coach, nonostante più di un’incognita, potrà fargli bene. Jason Kidd potrebbe tornare a utilizzarlo in una posizione più interna, ma per la convivenza con Dwight Powell che si prospetta all’orizzonte saranno necessarie una miglior comprensione del gioco e degli spazi e un maggior dinamismo.

KP, che secondo alcuni rumors aveva chiesto la cessione prima dell’addio di Carlisle, pare aver ritrovato un po’ di fiducia in se stesso e, cosa più importante, lampi di freschezza atletica si sono finalmente intravisti nella preseason. Pallacanestro d’ottobre, certo, ma quest’anno Dallas non può più permettersi di aspettare il lettone per le prime settimane di regular season in attesa che carburi.

Con meno paura dei contatti e un approccio migliore alle partite si aprirebbe un mondo di possibilità: non abbiamo ancora visto girare a pieno regime un attacco con Dončić e Porziņģis e la quasi totalità dei difensori si augura di non vederlo mai. Ma se in attacco, con quel tiro, KP se l’è più o meno sempre cavata in qualche modo, in difesa i nodi sono venuti al pettine.

In ritardo sugli aiuti, mal posizionato sugli scivolamenti, molle quando si tratta di proteggere il ferro. Quali sono le ragioni principali? Scarso QI cestistico o poca applicazione? Mancanza di mezzi atletici o fisico mai davvero al meglio? A Jason Kidd e tutti i Dallas Mavericks l’ardua sentenza.

Eric Bledsoe

Nel giro di pochissime stagioni la carriera di Bledsoe è precipitata in modo incontrollabile, e il suo ritorno in casa Clippers a quasi 32 anni ha tutta l’aria di essere l’ultimissima chiamata per dimostrare di non essere ormai un giocatore finito.

I giovani e ambiziosi Bucks lo avevano caricato a bordo dopo l’esperienza a Phoenix (o dal barbiere a Phoenix, a voi la scelta) per aggiungere in quintetto un giocatore che sulla carta avrebbe dovuto garantire una difesa point of attack di altissimo livello, insieme al ball handling necessario per non costringere Antetokounmpo a sostenere il peso dell’attacco da solo, visti anche gli scarsi risultati dell’esperimento “Point Giannis”.

Nel corso dell’anno Eric non aveva neanche sfigurato nonostante l’instabilità in casa Milwaukee, col cambio di guida tecnica in corsa tra Kidd e Prunty, ma ai playoff la narrativa è cambiata di colpo. I Celtics si sono trovati infatti costretti a schierare Terry Rozier in quintetto per via dei tanti infortuni e Bledsoe davanti ai microfoni dei giornalisti si è messo a scherzare apertamente sul livello del proprio diretto avversario, arrivando a chiedere “Who is Rozier?”.

Il resto è storia: Boston porta a casa la serie in sette gare con prestazioni stellari di Scary Terry, mentre Bledsoe si ritrova di colpo sbattuto sul banco degli imputati. Questo non impedisce però al GM Jon Horst di inserire un secondo turning point nella narrativa sul suo giocatore, decidendo di estendere il suo contratto a stagione in corso in un anno particolare, in cui i Bucks avrebbero dovuto rinnovare vari giocatori chiave (tra cui in particolare Malcolm Brogdon, che per via di questa estensione verrà lasciato andare ai Pacers).

Bledsoe non riuscirà mai a mantenere le promesse e i suoi successivi fallimenti ai playoff acquisiranno un peso specifico ancora maggiore per via del confronto con Brogdon, fino a quando i Bucks non decideranno di impacchettarlo con un ricco corredo di scelte per aggiudicarsi Jrue Holiday, elemento fondamentale per la vittoria del titolo 2021, mentre il loro ex giocatore deluderà ancora le aspettative anche a New Orleans.

Le premesse sembrano pessime, ma allora perché inserirlo tra i giocatori da cui ci si potrebbe aspettare un deciso cambio di rotta quest’anno?

Innanzitutto in attacco Bledsoe è certamente un giocatore limitato, ma i contesti in cui si è trovato a giocare non lo hanno aiutato. Una delle sue armi più efficaci è infatti la sua rapidissima transizione, ma nelle ultime due esperienze si è trovato a dividere il campo con due assi in questo fondamentale, Giannis e Zion.

Ai Bucks si è potuto effettivamente scatenare in transizione solo quando Antetokounmpo si è trovato fuori per infortunio, come contro gli Heat ai playoff del 2020, mentre ai Pelicans il sistema di Van Gundy era quanto di meno adatto alle sue caratteristiche possibile.

L’altra nota dolente più evidente del suo gioco è l’assoluta inaffidabilità del suo tiro dall’arco, unita all’apparente incapacità del giocatore nel riconoscere questo suo limite, accettando la sfida delle difese ben contente di concedergli spazio sul perimetro.

Il roster di New Orleans presentava delle spaziature da film horror, tra non tiratori e tiratori con le polveri bagnate: un contesto del genere permetteva agli avversari di intasare l’area e togliergli la possibilità di attaccare il ferro.

Ai Clippers potrebbe invece trovare una situazione a lui più congeniale: i losangelini l’anno scorso hanno costruito delle spaziature eccezionali – quantomeno in regular season – e Bledsoe non potrà non beneficiarne. Inoltre, l’infortunio di Leonard li costringerà a cercare altri protagonisti per tenere a galla la barca in stagione, permettendo a The Bledshow di tornare a giocare con la palla in mano, dopo una stagione all’ombra di Zion e Ingram.

Attenzione, non è detto che questo sia un bene, ma di certo nel contesto della regular season Bledsoe può dire la sua e regalare qualche vittoria ai suoi compagni, permettendo a George di non dover fare pentole e coperchi.

La sua capacità di difendere sulla palla non è invece in discussione, semmai il problema è la sua scarsissima attenzione lontano dal vivo del gioco, ma non ci sono dubbi sul fatto che potrà rivelarsi utile anche nella propria metà campo.

I Clippers hanno bisogno di una mano in regular season e hanno deciso di scommettere sul cavallo di ritorno: ora starà a Bledsoe guadagnarsi una riconferma nell’ultimo anno garantito del suo – troppo oneroso – contratto.

Josh Richardson

Sembra passato poco da quando Josh Richardson sembrava l’ennesima gemma nascosta scovata da Pat Riley e finemente intagliata da Erik Spoelstra. Guardiona di 196 centimetri, braccia lunghe, temibilissimo difensore e potenziale creatore secondario di ottimo livello.

Tiro un po’ ondivago, che necessitava di qualche ora di lavoro, ma niente di irrisolvibile. Il tutto al prezzo di una scelta numero 40 al Draft 2015. Mica male, no?

Impronosticabile o quasi la piega che ha invece preso la sua carriera in appena due stagioni. Un lieve calo nell’ultima stagione agli Heat prima di essere spedito a Philadelphia nell’estate 2019 in cambio di Jimmy Butler. Come sempre nella NBA non si guarda in faccia nessuno quando si tratta di arrivare ad una stella, ma lo scambio rappresentava anche in qualche modo lo status ormai raggiunto da Richardson, pronto a 26 anni ad entrare nel picco della carriera.

La sua avventura nella città dell’amore fraterno è durata appena una stagione, bollata come “anno nero” in grande misura a causa del contesto tecnico non favorevole, con spaziature troppo ristrette. Lo scambio a Dallas per Seth Curry e una scelta al secondo giro era stato salutato con entusiasmo da parte dei sostenitori Mavs (compreso, ahimè, chi scrive), con qualcuno che si spingeva addirittura a definirla una steal per i texani.

Niente di più sbagliato: alla corte di Mark Cuban l’andazzo non cambia, o forse peggiora ulteriormente. Il tiro da fuori sembra quasi completamente sparito, e nella pallacanestro di oggi un esterno che non segna parte già con un handicap indelebile.

J-Rich non ha l’atletismo sufficiente per essere un penetratore di alto livello e qualche difetto nel trattamento di palla vanifica anche la sua efficacia come playmaker. Anche in difesa, udite udite, non riesce più a fare la differenza: nulla di tragico, ma scordatevi quel cagnaccio insuperabile visto nei migliori momenti in Florida.

Con queste premesse non ci è voluto molto per concretizzare il terzo scambio in tre estati, questa volta in direzione Boston, a un prezzo veramente irrisorio. Nel Massachusetts l’ex Heat potrà comunque giocarsi ampiamente le sue carte: se Marcus Smart appare difficilmente scalzabile come titolare, la competizione per l’altro slot di guardia è apertissima tra lui, Dennis Schröder e Payton Pritchard, con un (apparentemente) redivivo Romeo Langford a scalpitare appena dietro.

Se c’è un ambiente in cui la difesa del #0 può riacquisire linfa vitale è proprio quello biancoverde e non solo per ragioni storiche: la versatilità di Josh come difensore sarà sicuramente apprezzata da Udoka, il quale potrà sperimentare diverse strategie.

In una squadra senza una point guard di ruolo ma con tanti giocatori in grado di passarsi bene il pallone, inoltre, Richardson potrà essere sollevato da compiti di creazione vera e propria che probabilmente non gli competono e ambientarsi bene in un contesto così altruista.

I dubbi permangono, intendiamoci: Udoka sarà bravo a doverlo inserire in quintetti con sufficiente spacing, quindi con almeno uno tra Tatum, Brown e Nesmith, mentre Grant Williams e Jabari Parker sembrano integrarsi peggio. Come centro più Horford di Robert Williams e Kanter e come guardia… dipenderà molto dalle lune di Smart e Schröder. Un rebus non da poco.

Boston, inoltre, continua a mancare di giocatori in grado di giocare bene lontano dalla palla, con il solo Aaron Nesmith utilizzabile come tiratore in uscita dai blocchi duro e puro. J-Rich dovrà dimostrare di non avere sempre bisogno del pallone tra le mani, al di là poi di un doveroso miglioramento delle percentuali da tre punti in senso stretto.

La sua carriera è ormai arrivata a un bivio: all’alba dei 28 anni non può più permettersi di sbagliare. I Celtics hanno dimostrato di voler puntare su di lui estendendogli il contratto fino al 2023 e l’impressione è che Josh possa trovarsi bene in un ambiente dove la cultura del lavoro è sacra, un po’ come agli Heat. Il fit tecnico, tuttavia, non è così immediato ed è necessario che Richardson dimostri migliori qualità di adattamento: le occasioni, nel giro delle contender, non sono infinite.

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Francesco Cellerino
Tifoso sfegatatissimo della Virtus Roma e dei Bucks per amore di Brandon Jennings (di cui custodisce gelosamente l'autografo), con la pessima abitudine di simpatizzare le squadre più scarse e rimanerci male per le loro sconfitte. Gli amici si chiedono da anni se sia masochista o se semplicemente porti una sfiga tremenda...
Enrico Bussetti
Vive per il basket da quando era alto meno della palla. Resosi conto di difettare lievemente in quanto a talento, rimedia arbitrando e seguendo giornalmente l'NBA, con i Mavericks come unica fede.