C’è da fidarsi dei Mavericks di Jason Kidd?

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Copertina di Francesco Perillo

Contrariamente a quanto accade di solito, i Dallas Mavericks sono stati tra le squadre più chiacchierate della scorsa estate. I motivi non erano esattamente quelli auspicati dai tifosi: una seconda sconfitta al cospetto dei Los Angeles Clippers, seguita dopo pochi giorni dagli addii di Donnie Nelson e Rick Carlisle, rispettivamente GM e allenatore di lunghissimo corso. La scelta di rimpiazzare il figlio del più celebre Don con Nico Harrison e, soprattutto, il coach del titolo del 2011 con Jason Kidd non aveva completamente convinto appassionati ed addetti ai lavori.

Dall’inizio della stagione si è invece parlato ben poco dei texani, forse anche a causa di un Luka Dončić partito con le marce basse e che sta faticando a sottrarre le luci della ribalta ai vari Jokić, Curry et similia. Il record però dice 9 vittorie e 7 sconfitte, con conseguente quinto posto nella Western Conference. Campione ridotto, certo, ma tutto sommato niente male per una squadra che partiva con un buon numero di punti di domanda. Nonostante tutto, Dallas non sembra convincere fino in fondo: andiamo a scoprire insieme se i dubbi sono fondati o se si sta un po’ esagerando a diffidare dell’operato di coach Kidd.

Calendario e stato di forma

Prima e insindacabile considerazione: i primissimi impegni dei Mavericks sono stati morbidi ad essere generosi. Raptors, Rockets, Spurs per due volte, Kings, Pelicans, i Celtics in un momento di crisi nera: a Kidd e Dončić poteva sicuramente andare peggio. In molte di queste partite, tra l’altro, Dallas ha sì portato a casa il corrispettivo americano del referto rosa ma lo ha fatto con scarti minimi, convincendo solo a tratti a livello di qualità del gioco.

Per quanto riguarda quelli che potremmo definire “scontri diretti”, ovvero incontri con squadre considerate dello stesso livello dei Mavs ai blocchi di partenza, gli annali annoverano una bella vittoria in casa contro Denver, uno splendido buzzer beater di Dončić contro Boston e…poco altro che valga la pena ricordare. Nell’ordine abbiamo -26 ad Atlanta, -31 a Denver, -15 contro Miami, -10 a Chicago, -7 e -8 a Phoenix, -6 a Los Angeles, sponda Clippers. Dopo i due disastri iniziali la situazione è andata migliorando, ma il quadro finale è piuttosto chiaro: contro le contender, o presunte tali, Dallas finora non ha saputo che pesci pigliare.

Indovinate da quale giocatore si deve partire nell’analisi? Sì, ha il 77 sulla schiena ed è sloveno, ma soprattutto ha iniziato di nuovo la stagione un po’ con le marce basse, anche se all’apparenza sembra meno appesantito dello scorso anno. Luka Dončić non è sparito, né si può definire negativa la sua primissima parte di stagione, ma il livello da borderline MVP a cui ci stava abituando, finora, appare piuttosto distante. Niente da dire sul capitolo “assistenze”: i compagni vengono ancora pescati con frequenza e precisione come è raro vedere anche nella NBA.

A livello realizzativo, invece, i numeri e le percentuali di Luka sono tutti in calo, e sembra esserci una ragione ben precisa da cui parte quasi ogni discorso. Dončić non riesce, almeno per adesso, a creare separazione con il difensore diretto, rendendo quindi vana la maggior parte dei tentativi di battere in palleggio l’avversario. Le conseguenze non sono poi così difficili da prevedere: lo sloveno tira circa 6 tiri liberi ogni 75 possessi, contro i 7.7 del 2020-21 e i 9.9 del 2019-20 e le conclusioni nell’ultimo metro di campo rappresentano appena il 10.4% dei suoi tiri, contro il 18% del 2020-21 e il 26% del 2019-20.

Chiaramente questo trend negativo dipende anche dalle spaziature che i Mavs hanno faticato sempre di più a costruire dopo aver fatto registrare il più alto Offensive Rating della storia nel 2019-20 (ci arriveremo più avanti), ma per un giocatore come Luka, sempre sul filo del rasoio a livello di efficienza anche a causa del volume spropositato di palloni che transitano dalle sue mani, sono cifre che cambiano tutto. La soluzione trovata da Dončić, ovvero aumentare il numero di tiri dalla media da 2.77 a 5.15 a partita, non sta funzionando granché, con la percentuale di realizzazione che è calata dal 48.6% al 37.3%. Anche il tiro da dietro l’arco è ondivago, ma probabilmente tenderà a tornare sulle consuete percentuali con l’andare delle partite: la percezione è che si tratti soprattutto di un problema di distribuzione dei tiri.

Con l’andare delle partite e la crescita della condizione fisica i problemi tenderanno probabilmente a risolversi a catena, esattamente come sono apparsi, ma ad una squadra così dipendente dal suo go-to-guy basta poco per far suonare il campanello d’allarme.

Sembra quasi incredibile a dirsi ma le buone notizie, per una volta, sembrano arrivare dall’altro: ebbene sì, Kristaps Porziņģis sta dando, per quanto flebili, chiari segni di vita. L’inizio era stato in realtà tutto fuorché esaltante, con 3 partite una più deprimente dell’altra e poi 5 gare saltate per l’ennesimo infortunio, con i tifosi che iniziavano già a spazientirsi. Al rientro in campo, però, abbiamo potuto ammirare un KP nuovo, più solido, finalmente un po’ più in fiducia e, udite udite, addirittura aggressivo. Certo, volendo le cifre raccontano di 23.1 punti a partita con il 61.7% di TS%, che già così non è male. Ma probabilmente ai tifosi dei Mavericks ha fatto più piacere una giocata come questa di mille triple realizzate.

Il lettone sarà in grado di continuare così? Domanda a cui rispondere al momento è francamente impossibile rispondere, anche visti i precedenti non proprio lusinghieri di KP in termini di continuità. Giusto però riconoscere i buoni segnali dopo averlo tanto criticato e probabilmente in questo senso c’è anche una maggiore intesa a livello psicologico con il nuovo allenatore. E sul fronte tattico?

Mmmh.

Next question?

Quintetti a tratti penalizzanti

No, i quintetti provati da Kidd finora non hanno funzionato granché. La decisione di tornare a schierare Kristaps Porziņģis e Dwight Powell insieme dall’inizio era criticabile per quanto riguarda la metà campo difensiva, ma anche in attacco sono stati più i danni che i benefici. Azioni come quella sottostante si sono ripetute più e più volte, fino ai limiti della sopportazione: mentre Dončić e Powell si preparano a giocare il pick and roll Porziņģis prende posizione per ricevere in post. Indovinate come va a finire?

In altre occasioni si sono viste invece soluzioni interessanti per quanto riguarda il lettone, che sistemato sul gomito ha generato alcune situazioni stuzzicanti. Il numero di assist, d’altra parte, non è mai stato così alto.

È normale che Kidd stia sperimentando un po’ e i risultati andranno giudicati con un campione di partite decisamente più ampio. Alcuni saranno molto facili da abbandonare, come far giocare pick and roll o in post basso Dorian Finney-Smith, role player sempre utile ma con limiti ben marcati e che finora è sembrato parecchio in confusione. C’è anche da dire che la costruzione del roster, come ribadito fino allo sfinimento, non aiuta l’ex point guard californiana: senza Dončić in campo non c’è alcun altro Maverick in grado di mettere sotto pressione la difesa e di creare tiri aperti per i compagni, al di là del fatto che giocatori come Hardaway Jr. e lo stesso Finney-Smith non la stanno mettendo con la continuità necessaria.

La manna dal cielo per Kidd si chiama Jalen Brunson, che sembra essere all’anno della definitiva consacrazione. Dalla panchina, da titolare, con Dončić, senza Dončić: ogni volta JB ha fatto il diavolo a quattro.

La sua sicurezza nel prendersi tiri da fuori e dalla media è ormai una certezza, ma ad essere migliorata ancora è la gestione del pallone. Il rapporto assist/palle perse non è mai stato così positivo e passaggi come questo, che spesso lo scorso anno finivano preda della difesa avversaria, sono ossigeno puro per i Mavs.

Alti e bassi anche per quanto riguarda i role player: Maxi Kleber, seppur utilizzato a singhiozzo causa infortuni, sembra essere tornato agli antichi fasti, mentre Reggie Bullock e Sterling Brown hanno martoriato i poveri ferri dell’American Airlines Center con una marea di triple sbagliate. La lieta sorpresa, invece, si chiama Frank Ntilikina, che forse per la prima volta in carriera sembra essere un giocatore di livello NBA. Le grandi doti difensive non sono mai state in discussione, ma a vederlo prendersi tiri da fuori con questa nonchalance verrebbe quasi da dire che i Mavs potrebbero aver pescato dalla spazzatura un validissimo giocatore di rotazione. Che storia, l’asse Dallas-New York…

La distanza tra i Dallas Mavericks e la reale possibilità di andare fino in fondo, ad oggi, rimane ampia. Le difficoltà ci sono state ed è inutile negarlo, ma molte di queste appaiono risolvibili con il passare della stagione. Sarà importantissimo risolvere il rebus nel reparto lunghi, tra un Cauley-Stein disastroso, un Moses Brown quasi mai visto e l’assenza di un 4 vero che non si chiami Maxi Kleber. Le guardie stanno un po’ meglio con questo Brunson tirato a lucido, ma un altro creatore di gioco continua a mancare come il pane. Kidd ha ancora parecchio tempo, ma con la difesa che, a conti fatti, è rimasta più altalenante di un’attrazione di Gardaland dovrà trovare insieme a Kokoskov la chiave per mettere insieme i pezzi in attacco. Difficile pensare che Lakers, Nuggets e Trail Blazers, tanto per fare qualche nome, restino a guardare inermi ancora per molto.

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Enrico Bussetti
Vive per il basket da quando era alto meno della palla. Resosi conto di difettare lievemente in quanto a talento, rimedia arbitrando e seguendo giornalmente l'NBA, con i Mavericks come unica fede.