Cosa abbiamo imparato dalla vicenda Durant-Nets

Kevin Durant Trade
Copertina di Valentino Grassi

“Tanto tuonò che non piovve”. 

Nonostante le richieste di scambio, gli svariati rumors avvicendatisi in qualche settimana, una serie di fanta-trade per far atterrare lo scontento Kevin Durant in varie contender, la notizia ufficiale è che KD resta ai Brooklyn Nets per la prossima stagione (almeno per ora).

A poco più di due mesi dall’iniziale richiesta di trade, il super insider Shams Charania conferma che Joe Tsai (proprietario), Steve Nash (coach), Sean Marks (GM), Kevin Durant (superstar scontenta) e Rich Kleiman (agente di quest’ultimo) si sono incontrati e hanno deciso di proseguire la loro “partnership”.

Uno tra i migliori giocatori degli ultimi [inserire numero a vostro piacimento] anni resta in una squadra con un mercato grande, con una dirigenza determinata a vincere, un GM capace e un roster attorno che può puntare legittimamente in alto. Tutto bene quindi?

Non proprio, dato che la convivenza tra Durant e i Nets si configura, a mio parere, come un nodo importante di varie questioni: player empowerment, peso dato alla sfortuna, lealtà verso la squadra contro libertà individuale, obsolescenza del modello contrattuale NBA, equilibrio di potere tra giocatori, lega e proprietari, questioni sulla qualità del prodotto NBA e delle sue narrative.

Prima di provare a capirci qualcosa riguardo a tutti questi temi, una rapida cronologia dei fatti: com’è stata l’avventura di Durant a Brooklyn finora?

Surrealista
Più o meno così: surrealista e confusionaria

Questo amore è una camera a gas: cronologia della storia tra Durant e i Nets (e Irving, e Harden, e Nash…)

Capitolo 1: occhi a cuoricino

30 giugno 2019: dopo l’addio di Durant a Golden State, motivato dalla ricerca di una piazza in cui vincere come leader e quello contemporaneo di Kyrie Irving a Boston, con cui i rapporti sono ormai compromessi, le due stelle sembrano allinearsi verso la Grande Mela. La dirigenza Knicks, fedele a sé stessa ed alle sue illusioni, ha già messo in frigo lo champagne.

Solo che le due superstelle firmano per i Nets, vincitori assoluti della free agency 2019 assieme ai Los Angeles Clippers – che si aggiudicano durante la stessa estate i servizi di Paul George e Kawhi Leonard -. I commentatori si sprecano a incensare le due nuove favorite a molteplici titoli NBA negli anni successivi. Non andrà così né per i Clippers né per i Nets.

Capitolo 2: ho abbandonato tutti gli amici per te

Mentre Durant si riprende dall’infortunio del tendine d’Achille, Tsai prepara il terreno per creare una macchina da guerra: saluti al roster che formò la feel good story del “Plotone Kenny Atkinson”, con la partenza del suddetto coach, di Jarrett Allen, Caris LeVert, Taurean Prince, D’Angelo Russell. Entra Steve Nash come nuovo coach, circondato da una selva di assistenti allenatori di primo livello, tecnico ed umano: Mike d’Antoni, Jacque Vaughn, Ime Udoka, Amar’e Stoudemire. La sensazione è che alle superstelle nel roster corrispondano delle superstelle nel coaching staff, e che il sol dell’avvenire è luminoso.

Una piccola ombra si vede già, quando Irving (persona notoriamente umile e modesta) dichiara “Non lo chiamo coach, lo chiamo Steve. Non penso che abbiamo bisogno di un capo allenatore: Durant potrebbe essere il nostro capo allenatore, io potrei esserlo.” OK.

Un po’ di polemica postdatata che fa sempre bene

Capitolo 3: abbiamo comprato il cane

Il Plotone già citato viene più o meno scambiato per James Harden, che arriva a Brooklyn dopo una lunga, vincente-ma-non-abbastanza carriera con gli Houston Rockets. Anche qui, i commentatori vanno in crisi, divisi tra chi prevede un monopolio di titoli Nets per anni, chi è schifato da una tale concentrazione di talento offensivo e le poche Cassandre che prevedono un’implosione tra quei tre caratterini (ed avranno ragione).

Capitolo 4: é un momento difficile, passerà

La fortuna è cieca, ma la sfiga ci vede benissimo: i Nets non porteranno a casa alcun titolo durante l’era dei Big 3, in un mix letale di infortuni, sfortuna, situazioni imprevedibili. 

Il 19 giugno 2021 è la data nera: in gara 7 del secondo turno Playoff 2021, Kevin Durant pesta la linea del tiro da 3 mentre segna quello che sarebbe il buzzer beater per battere i Milwaukee Bucks, ma che in realtà è “solo” un biglietto per i supplementari, che i Nets perdono. 

Una beffa che coronerà un’annata in cui i big 3 hanno diviso il campo solo 14 volte, con un record di 11-3. L’amarezza è tanta, ma il futuro resta ricco di possibilità e vittorie.

Capitolo 5: montagne russe emotive

Convinto che la serie di sfortune del 2021 non potrà ripetersi (ah!) Durant firma un’estensione da 194 milioni di dollari per 4 anni con la squadra. L’idea è chiara: un progetto a lungo termine, un roster stellare, tanti titoli all’orizzonte.

Nel mentre, la storia bussa alla porta: Kyrie Irving rifiuta di vaccinarsi contro il COVID, le leggi dello stato di New York in materia sono tra le più restrittive degli USA e le due “testardaggini” possono partorire solo un risultato: Irving non può scendere in campo. Potrebbe scendere in campo in trasferta, ma il coaching staff decide di non farlo giocare per mesi. In tutto questo, le conseguenze di questa situazione sullo spogliatoio non sono positive.

Una delle ragioni per cui James Harden, che il 25 gennaio dichiara di non voler andarsene, il 10 febbraio se ne va, direzione Philadelphia. L’era dei secondi big 3 a Brooklyn – dopo l’esperimento fallito Joe Johnson-Pierce-Garnett- finisce così, con una sensazione di irrisolto che comporrà uno tra i più grossi what if della storia della lega.

Capitolo 6: non sei tu, sono io. No in effetti sei tu.

Arriviamo allo scorso aprile: i Nets sono eliminati al primo turno dei Playoff dai Celtics; finisce un’altra stagione fallimentare per cause esterne al gioco espresso in campo. Rispetto all’anno prima però, le acque sono avvelenate: Harden non c’è più, il rifiuto vaccinale di Irving ha rovinato gli equilibri di spogliatoio, il coaching staff sembra aver perso il polso della situazione.

Il contratto di Kyrie arriva alla fine: o accetta la player option e resta ancora un’annata (cosa che alla fine farà) o i Nets gli offrono una estensione pluriennale come fatto a Durant (cosa che Irving spera ma che Tsai nemmeno si sogna). Si prova a mettere in vetrina Irving, ma la storiaccia del vaccino e il costo del suo contratto hanno raffreddato gli animi dei potenziali compratori. Irving rimane un giocatore dei Nets.

Capitolo 7: stay together for the kid$

Poco tempo dopo che Irving accetta la player option, Durant chiede la trade. Siamo al 30 giugno, esattamente due anni dopo l’inizio dell’avventura Durant-Brooklyn. Il mondo della NBA impazzisce: Durant a Phoenix per Bridges e Ayton? Oppure forse a Boston per Brown e scelte? Magari addirittura a Toronto per Scottie Barnes, oppure a sorpresa a New Orleans? 

La bolla delle congetture si gonfia a dismisura, ma nessuna notizia ufficiale arriva a confermare le voci di corridoio. Le settimane passano, si va in vacanza, la situazione si placa, fino al colpo di coda dello scorso 8 agosto.

Durant dà un ultimatum a Tsai: O Nash, o me. Tsai, convinto di avere il coltello dalla parte del manico, tiene duro. 15 giorni dopo Durant e i Brooklyn Nets fanno pace e si riparte per la stagione 22/23 con le stesse due superstar dell’origine, alla ricerca di un titolo che dopo tutte queste vicissitudini sembra sempre più evanescente.

Cosa abbiamo imparato da questa vicenda?

Lezione 1 : la NBA è sempre e comunque un business. 

Un Kevin Durant sul mercato obbliga praticamente ogni squadra che possa permetterselo a provare il tutto per tutto per accaparrarselo, mettendo pressione sulla proprietà dei Nets. Eppure, la proprietà ha tutto il diritto di sparare alto sulle richieste per la controparte, per massimizzare il ritorno di un’eventuale perdita di Durant o semplicemente come strategia per far passare il tempo e finalmente tenersi la superstar.

L’elemento chiave qui è il fatto che Durant non è in scadenza di contratto, quindi la proprietà non vive la situazione di pressione “o lo scambio per poco o lo perdo per nulla”. Nel caso in cui il contratto non sia in scadenza, è l’offerta a determinare il prezzo del giocatore, non la domanda. Tsai non ha mai abbassato il prezzo per Durant, che si componeva di un all star, un mucchio di scelte al draft ed almeno un valido giocatore di rotazione o prospetto intrigante.

Lezione 2: tra player empowerment e “capriccio” il passo è breve

Come per tanti macromovimenti culturali e sociali (decolonizzazione, lotta al patriarcato,…) gli equilibri di potere tra il vecchio e il nuovo mondo NBA stanno cambiando e ci troviamo ancora, a mio parere, in una fase più distruttiva che costruttiva. 

Se da un lato è giusto che i giocatori rivendichino più autonomia per le loro scelte lavorative, potendo andarsene da situazioni negative professionali e/o personali, dall’altro c’è un’evidente minaccia alla qualità del prodotto NBA se i giocatori possono permettersi di sfidare pubblicamente i loro datori di lavoro e “ricattare” la squadra con richieste di trade. Penso a Durant e i suoi ultimatum vacui, o le situazioni di Ben Simmons, Irving, Harden, eccetera. Situazioni tutte diverse e caratterizzate da pretese giustificabili per i giocatori, ma che danno l’impressione che la lega sia “ostaggio” del capriccio della superstella di turno. Una sorta di tampering a rovescio.

Lezione 3: il valore economico dei contratti max è sempre meno importante

In una lega in cui un giocatore di primo profilo può ricavare denaro dalla sua immagine già da prima del suo ingresso in campo, l’incentivo a restare in una squadra per un maggiore stipendio ha sempre meno valore. LeBron James ha guadagnato un totale di 530 milioni di dollari durante la sua carriera, ma il suo patrimonio è stimato a più di un miliardo: la metà dei suoi guadagni arriva da fonti extra NBA. Per i giocatori di primo piano, rinunciare a qualche milione non è un grande sacrificio; le “armi” che le squadre NBA hanno per tenere i giocatori sotto contratto sono sempre meno affilate. Se lo scopo della lega è garantire continuità dei roster e rispetto del contratto dalla parte della superstar, bisognerà concepire soluzioni alternative.

Lezione 4: ogni contratto max pluriennale è in realtà un biennale

Lo vediamo sempre di più e il caso Durant ha confermato una mia supposizione che, nel caso diventassi GM di qualche squadra NBA, sarebbe una regola non scritta: ogni contratto è in realtà un biennale. Firmare la superstella per 5 anni riempiendolo di soldi non garantisce che il giocatore resterà con la squadra per tutta la durata del contratto. La pazienza media dei giocatori dà una finestra di 2 anni per convincerlo della bontà del progetto. Nell’epoca in cui un tweet di un giocatore può distruggere mesi di pianificazione strategica del front office, bisogna esser consapevoli di star camminando su un filo sottile.

Lezione 5: le favole sono finite

Per i vecchi come me, il titolo dei Mavs 2011 fu particolarmente catartico per la narrativa intorno che prese il nome di Built vs Bought: costruito versus comprato. Da un lato una squadra costruita con giocatori affamati, vecchi, all’ultimo assalto del titolo, carichi di voglia di rivalsa verso Miami che tolse loro l’anello nel 2006; dall’altro la squadra comprata, preconfezionata, con tre megastelle che si uniscono per creare una corazzata imbattibile sulla carta. La sensazione che ci fosse un modo più “onorevole” per vincere fu sottolineata dall’exploit di Dallas, ma gli osservatori più attenti lo avevano già capito (e già si era visto nel 2004 con i Lakers e nel 2008 con Boston): le dirigenze più abbienti avrebbero preferito prendere una scorciatoia verso il titolo, spendendo cifre irreali per accaparrarsi i migliori sulla piazza, cestisticamente maturi e pronti all’assalto.

Questo cambio filosofico ha fatto un altro salto in avanti con la maggior autonomia decisionale dei giocatori. Oggi siamo al Built vs Self Assembled: giocatori che, per vincere, spingono per essere scambiati in situazioni di contender. Se da un lato è esaltante poter vedere queste supersquadre (e/o vederle fallire), dall’altro il potenziale narrativo della lega si è indebolito. Volete mettere la storia del talento greco pescato in A2 che vince il titolo con la squadra che lo draftò, rispetto a una squadra composta da “scarti di lusso” di altre tre?

Ogni scusa è buona per spammare il mio momento playoff preferito di sempre

Lezione 6 : la responsabilità di classe

Patrick Beverley, che è uno che non tace, ha twittato un messaggio che ci dà uno spaccato sul dietro le quinte della free agency: siccome le stelle indecise bloccano il mercato, dato che ogni squadra cerca di racimolare soldi ed asset per poter prendere il giocatore, tutti i cestisti di secondo piano sono in stallo finché la superstar non si accasa. Ma i giocatori di secondo piano non hanno un’altra fonte di reddito come le superstelle, e ciò crea tensione nei professionisti che sperano di poter firmare un contratto e garantirsi uno stile di vita e una “pensione”.

Lezione 7 : c’è solo un happy ending possibile per la legacy di KD

Non sono uno psicologo e non conosco Kevin Durant, quindi tutto ciò che scriverò è probabilmente fuffa. Ma penso che Durant non sia sereno da quando decise di lasciare OKC per unirsi a Golden State. Certi tweet aggressivi, certe dichiarazioni, certi atteggiamenti mi fanno pensare che Durant abbia non pochi rimorsi e sia un po’ ossessionato dalla sua legacy. Il giocatore è stellare, ma cosa penserà la gente del Durant uomo, dopo il suo ritiro?

Se davvero Durant non riesce a dormire la notte nonostante il materasso di banconote su cui riposa, per me la soluzione è una sola: riparare al peccato originale ritornando ad Oklahoma City. 

O perché no, a Seattle?

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Andrea Snaidero
''Esperto NBA", bravissimo podcaster, usa Linux Mint e ha il calcola-pizza tra i preferiti, una persona senza difetti. Co-conduce insieme ad Andrea Bandiziol "The ANDone Podcast.