La Draft Class 2018 va in paradiso

Draft 2018 NBA
Copertina di Francesco Ricciardi

Sono passati (quasi) tre anni da quella notte del 21 giugno 2018, dove al Barclays Center di Brooklyn venivano scelti i sessanta giocatori della Draft Class ’18.

Tre anni sono pochi per fare un re-draft – e, francamente, non è l’obiettivo dell’articolo – però, vista la regular season appena vissuta ed i Playoff ai quali stiamo assistendo, possiamo fare un’analisi su quei nomi che stanno riscrivendo la propria narrativa.

DeAndre Ayton, Luka Dončić e Trae Young in primo luogo. Ma, soprattutto, Mikal Bridges, Kevin Huerter, Bruce Brown e Michael Porter Jr., tutti giocatori che si sono resi protagonisti di una stagione notevole.

E, perché no, una menzione a Marvin Bagley III, giocatore dal talento cristallino finito nel posto sbagliato al momento sbagliato, che ha riscritto – con l’aiuto di Divac, di Walton ed una buona dose di sfortuna – la sua narrativa in negativo.

Dubbi, pregiudizi ed incertezze su una Draft Class che, in pochi mesi, sono stati spazzati via. Una situazione che può essere riassunta con una frase uscita dalla bocca di Ayton poco tempo fa:

Penso sia la migliore Draft Class della storia.
Ci sono tantissimi talenti generazionali.

DeAndre Ayton

Per qualità, talento e profondità, questo Draft si candida prepotentemente ad essere uno dei migliori della storia recente. Parliamo di una classe che, per la prima volta dal 1984, ha visto tutte le sue prime cinque scelte nell’All-Rookie First Team.

Solo il tempo (ed il campo) potrà dirci la verità.

DeAndre Ayton e Mikal Bridges

La prima scelta del Draft 2018 ha vissuto sulla propria pelle quanto possano fare male le critiche e le etichette che vengono affibbiate ad un atleta prima che possa dimostrare il suo valore in campo.

Ayton è entrato nella lega come “Il figlio dell’Arizona”, dopo aver esordito in maglia Wildcats il 10 novembre 2017 ed essere stato scelto dai Phoenix Suns nel successivo Draft. Le aspettative su Ayton, fin da prima della Summer League 2018, erano altissime.

Il nativo di Nassau stava vivendo, suo malgrado, quel sogno americano che forse ha tarpato le ali a tanti, troppi, ragazzi. La fortuna di Ayton è stata quella di esser stato scelto da una franchigia che ha dato un occhio al proprio futuro, sacrificando il presente per costruire una roster (ed una mentalità) vincente nei prossimi anni.

E, diciamolo, la fortuna di Ayton è stata quella di trovare sul suo cammino Chris Paul, Devin Booker, Monty Williams e James Jones.

Uno scout NBA, ovviamente rimasto anonimo, ha dichiarato: “Non voglio screditare Ayton, ma se fosse finito a Sacramento non sarebbe diventato così forte”. Tale dichiarazione va a collegarsi, ad incrociarsi, direttamente (e tristemente) con la narrativa di Bagley.

Alzi la mano chi pensava potesse diventare questo giocatore rivitalizzato, maturato, che sta dominando il pitturato, che ha tirato con il 79.5% dal campo contro i Lakers di LeBron James ed Anthony Davis, che ha limitato, stancato, attaccato Nikola Jokić, nuovo MVP della lega, ed ora sta cercando di portare Phoenix a delle storiche Finals NBA che in Arizona mancano dal 1993.

Considerazioni doverose dopo due stagioni da 56.5% dal campo e da 56.65% di eFG, con percentuali tra l’altro inflazionate da quelle che sembravano prestazioni estemporanee dei Suns nella bolla di Orlando, con atteggiamenti lontani dalla “durezza” richiesta dal palcoscenico ed istinti difensivi pressoché inesistenti.

Non era facile per Ayton riscrivere la propria narrativa, non è entrato in NBA con lo status di Superstar o Chosen One come Luka Dončić o Zion Williamson.

Si è reso necessario un lavoro certosino del coaching staff sui suoi punti di forza ma, soprattutto, sulle sue debolezze. Un lavoro che sta pagando e, a ben vedere, pagherà nel prossimo futuro.

I Suns, però, non sono solamente Ayton, Paul e Booker. Non sono solamente Williams e Jones. Sono, anche, Mikal Bridges.

La stagione 2020-21, tra regular season e Playoff, sta confermando un fatto ormai balzato all’occhio dal luglio dello scorso anno: Bridges è uno dei migliori 3-and-D wings della NBA.

Anche in questo caso, la narrativa ha giocato un brutto scherzo. Questa volta ai Sixers di Brett Brown. Per avere quello che in molti credevano potesse diventare “Il nuovo Kawhi Leonard”, ovvero Zhaire Smith, Brown (all’epoca general manager ad interim di Philadelphia) ha pagato un prezzo piuttosto alto.

Il ragazzo di Philadelphia, con la madre impiegata proprio nella franchigia della sua città, emozionato la sera del Draft per essere stato scelto dalla “sua” squadra, viene mandato a Phoenix per arrivare a Smith, un ragazzo sicuramente talentuoso ma perseguitato dagli infortuni – prerogativa per diventare un giocatore dei Sixers.

Con i “se” e con i “ma” non si va da nessuna parte, se Philadelphia avesse creduto nel talento di Bridges probabilmente non sarebbe riuscita ad arrivare a Tobias Harris; o, se per arrivare ad Harris avesse dovuto sacrificare una pick futura, probabilmente non avrebbe potuto scegliere un difensore elitario come Matisse Thybulle.

Bridges ha spostato gli equilibri, sia in campo che fuori.

In questi playoff, soprattutto, sta letteralmente incantando su entrambi i lati del campo. sta mostrando una durezza mentale incredibile, abbinata ad una fase difensiva commovente ed a una fase offensiva che, combinata con gli schemi di coach Williams e con la leadership di Chris Paul, mette in risalto il suo atletismo (74.1%FG 0-3 foot) e la sua capacità di prendere triple con buone percentuali (35.6%FG, 35.1% corner 3s).

D’altronde, l’ha dichiarato lo stesso bi-campione NCAA con Villanova, lui è fatto per questi match: “Giocare ai playoff è sempre stato un mio sogno. Ho giocato tante partite importanti al college, ma in NBA è tutta un’altra cosa”.

Trae Young e Luka Dončić

Tipicamente, in un Draft NBA si viene sempre a creare un dualismo. I media lo cavalcano, i due giocatori saranno sempre “connessi”. É successo con Williamson e Morant, è successo con Simmons ed Ingram, è successo con Wiggins e Parker ed è successo (addirittura) con LeBron e Miličić.

Nella Draft Class 2018 i due giocatori per sempre collegati, con i destini incrociati, sono Trae Young e Luka Dončić.

Con questa trade, gli Hawks ed i Mavericks hanno ipotecato il proprio futuro, andando a scegliere le due vere stelle di quel draft – nonostante siano stati scelti, rispettivamente, con la pick #3 Dončić e con la pick #5 Young – che, oggi, in questi playoff, hanno dimostrato perché le due franchigie si sono impegnate tanto per non far finire uno di questi due fenomeni a Memphis.

Su Dončić c’è veramente poco da dire, parliamo di un fenomeno generazionale capace di incantare il pubblico Blancos ai tempi del Real Madrid da minorenne e di diventare, in appena tre anni, Rookie Of The Year nel 2019, due volte All-Star NBA nel 2020 e nel 2021 ed altrettante due volte nominato All-NBA First Team nel 2020 e nel 2021.

D’altro canto, l’ombra di Dončić sul Draft del 2018 si è fatta insistente fin dai giorni precedenti. Un GM della Western Conference, rimasto anonimo, ha affermato che i team dell’Ovest fuori dalla lottery hanno prestato molta attenzione quella notte, non volevano che un giocatore del genere finisse in una franchigia potenzialmente competitiva.

Lo stesso GM si è espresso così su Luka: “Sicuramente pensavo che sarebbe diventato molto forte, ma non così forte. Basta giocatori forti ad Ovest, vi prego”.

Il timore dei GM della Western Conference è diventato realtà quando è stata ufficializzata la trade tra Dallas e Atlanta.

Limitandoci a questi Playoff, Dončić si è caricato sulle spalle Porzingis, Richardson, coach Carlisle e l’intera città di Dallas ed ha provato, per il secondo anno consecutivo, ad eliminare i Los Angeles Clippers al primo turno.

Per raccontare la serie giocata da Dončić basterebbe solamente snocciolare le sue raw stats: ha tenuto di media, nei sette match, 35.7 punti, 10.3 assist, 7.9 rimbalzi, 49% dal campo, 40.8% dall’arco, 56.9% di eFG; cosa gli si può chiedere di più? Di non tirare i liberi con il 52.9%.

Dončić in questi anni ha confermato quanto ci avevano visto bene gli scout NBA e quanto fosse giustificato il timore dei GM che si sono ritrovati contro il giocatore che, nella metà campo offensiva, ricorda di più la miglior versione di LeBron James. Capace, però, di tirare in stepback, con la mano in faccia, dai nove metri con il 40%.

Il destino di Luka, come abbiamo detto, è legato a filo doppio al percorso che ha affrontato Trae Young in Georgia in questi tre anni.

Per arrivare a questa “versione”, considerato dai tifosi di Knicks e Sixers il nuovo villain della NBA, Trae ha dovuto superare difficoltà dovute al suo fisico ed anche pregiudizi. Difatti, uno scout della Eastern Conference ha affermato: “Tanti scout odiavano Trae Young. Pensavano, ‘Non vorrei allenare quel fi*** di ****ana”.

Ovviamente certe affermazioni, per di più di persone rimaste anonime, vanno prese con le pinze. Però il carattere che sta mettendo in mostra Young dimostra solamente che il ragazzo le spalle le ha belle larghe.

Inizialmente, Young ha sofferto il paragone con Dončić. Nel 2019, il padre di Trae, Rayford, ha dichiarato al giornalista di The Ringer Paolo Uggetti che il figlio è stato negativamente influenzato dalle prestazioni di Luka.

La fortuna di Young (esattamente come per Ayton) è stata quella di esser stato draftato da una franchigia che ha costruito il roster intorno alle caratteristiche della propria stella, che gli ha permesso di sbagliare e di crescere, che ha trasformato quella pick di Dallas in Cam Reddish, che ha cambiato vari allenatori permettendo allo stesso Trae di esplorare varie dimensioni del proprio gioco.

Così, sbagliando e crescendo, ha portato gli Hawks ai Playoff da underdog. Poi, una volta iniziati, si è trasformato in Ice Trae, il villain della NBA.

La serie con New York dominata, più forte della difesa avversaria e dei tifosi che lo hanno insultato (e gli hanno sputato addosso). A Philadelphia scoprono che non bisogna aver timore solamente del tiro dall’arco di Young ma anche del suo floater mortifero, che trasforma la serie in un clamoroso upset. Ora – assente in gara 4 contro Milwaukee per un infortunio alla caviglia ma ben sostituito da Lou Williams – rischia di portare tutta la Georgia a delle clamorose Finals NBA, complice anche l’infortunio al ginocchio (da verificare) di Antetokounmpo.

Alla sua prima apparizione ai Playoff sta viaggiando a quasi 30 punti e 10 assist di media, non male no?

Lo stesso Sweet Lou, al termine di quella gara 5 contro Philadelphia da 39 punti, si è sbilanciato: “È un mostro ed un futuro Hall of Famer, sono grato di giocare con lui”.

Ancor più significative sono le parole di uno scout NBA dopo questo exploit di Atlanta nella postseason: “Forse forse Atlanta è contenta di non avere preso Dončić”.

Di certo, sappiamo che sentiremo parlare di Luka e Trae per i prossimi dieci anni almeno.

Kevin Huerter, Michael Porter Jr., Landry Shamet e Bruce Brown

Ora possiamo parlare di quei giocatori che, scelti fuori dalla Top 10 del Draft 2018, hanno riscritto la propria storia interpretando un ruolo secondario (ma non marginale) nelle proprie franchigie.

Lo ammetto fin da subito, su Kevin Huerter non sono oggettivo. Si tratta di un giocatore che ho imparato ad apprezzare seguendolo nel suo percorso collegiale nel Maryland e l’ho visto crescere nella sua esperienza agli Hawks.

Onestamente, mi aspettavo una crescita del genere. Parliamo di un giocatore che va valutato oltre le statistiche riesce a mettere in campo. Durante gara 4 contro Milwaukee, complice l’assenza di Young, si è preso più responsabilità al tiro ed ha sbagliato tanto (7/15 dal campo, 1/7 dall’arco). Ma, nonostante questo, è risultato uno dei migliori in campo, sia per il suo apporto in fase offensiva (7 assist) sia per la sua propensione alla fase difensiva che lo ha sempre contraddistinto.

Michael Porter Jr. si è trovato, suo malgrado, ad essere il secondo violino dei Nuggets per via del grave infortunio occorso a Jamal Murray. Ha letteralmente riscritto la sua narrativa.

Ora, negli occhi di tutti c’è questo ragazzo che, universalmente riconosciuto come il miglior talento di quella Draft Class, a causa dell’operazione alla schiena viene passato da tutti i team e, quando viene chiamato alla #14 da Denver, fatica non poco ad arrivare sul palco da Adam Silver.

Quel ragazzo, pur con limiti tecnici da sistemare, è uscito contro i Suns di Chris Paul e Devin Booker ma ha dimostrato che il suo talento è cristallino e può ambire a diventare uno dei migliori scorer della lega nei prossimi anni.

E che dire di Landry Shamet e, soprattutto, Bruce Brown? Due autentici role player che hanno permesso a Steve Nash (con l’aiuto di uno spaziale Jeff Green) di sostenere il sistema dei Nets dei Big Three finché non è rimasto solo Durant.

A proposito di Bruce Brown, Nash lo ha utilizzato diverse volte come “5” in un quintetto small. Blake Griffin, proprio su Brown, ha affermato: “Non ha paura di nulla ed approfitta in maniera ottimale di tutto lo spazio che le difese gli lasciano. E in difesa è un mastino in grado di marcare qualsiasi avversario.”.

Perché non citare, poi, Donte DiVincenzo, Jalen Brunson o Aaron Holiday? Tutti giocatori che sono stati in grado di ritagliarsi un ruolo, magari da comprimari, che non può essere trascurato.

E, infine, oltre al già citato Marvin Bagley III, va nominato un altro grande assente che, per sua fortuna, avremo modo di vedere splendere nei prossimi anni: Shai Gilgeous-Alexander.

Intanto, attingendo all’altra mia passione, il cinema, semi-cito il titolo di un film di Elio Petri del 1971: “La Draft Class 2018 va in paradiso”.

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Davide Quadrelli
Tifo Lakers e Cantù, tifo Valentino Rossi e Kimi Raikkonen, tifo Juventus e Patriots. Pare che io scriva per True Shooting.