Dubbi ed incertezze su Team USA

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Copertina di Marco D'Amato

Dall’avvento dell’unico ed inimitabile Dream Team – nato dall’esigenza di riscattare la figuraccia alle Olimpiadi di Seul ‘88 – il Team USA ha conquistato sei medaglie d’oro nelle ultime sette competizioni iridate.

Ed il tracollo non da poco è chiaramente quello di Atene 2004, altro crocevia per dare il la ad una nuova epoca di successi, che se si eccettua la sconfitta episodica con la Grecia ai Mondiali 2006, narrava di cinquantotto vittorie consecutive.

Questo prima della caduta con la Francia nel 2019, a coronazione di un Campionato del Mondo che nuovamente evidenziava limiti strutturali, ma anche tecnici.

Perché se da una parte è vero che per le stelle NBA dare forfait alle chiamate nazionali è ritornato frequente, dall’altra ci sono le consuete difficoltà nell’approcciarsi alle regole FIBA. Una questione annosa, divenuta di maggior importanza con la crescita di valore del cosiddetto “resto del mondo”.

Agevolato dalla produzione di talenti formati in gran parte in quel sistema, prima di spiccare il volo ed apprendere i segreti del mondo della National Basketball Association. Sempre più globale, tanto quanto lo sono i principali atleti che ne segnano il gioco attuale.

Alla vigilia dei Giochi Olimpici di Tokyo 2020 (chiaramente posticipati di un anno a causa della pandemia), gli interrogativi sulla spedizione guidata da coach Gregg Popovich si rinnovano proprio alla luce di quanto appena affermato.

I problemi del roster

Partiamo dall’evidenza, e cioè che i giocatori che hanno risposto alla chiamata di coach Popovich non rappresentano il meglio esistente nella lega, per differenti ragioni.
Non ci sono i LeBron James, gli Stephen Curry e i James Harden, ma le stelle a comunque non mancano. Anche se sono in molti a sostenere che eventuali imprevisti come defezioni di Kevin Durant e Damian Lillard renderebbero il Team USA più battibile di quanto non sia, sulla carta.

E questo perché a prescindere dalla presenza di un all around come Draymond Green, ed il fresco ed entusiasta innesto di Keldon Johnson, la costruzione può lasciare a desiderare per struttura. Almeno, a voler essere pignoli.

Certo, l’arrivo dei tre attesissimi protagonisti delle Nba Finals dovrebbe aiutare ad elevare la qualità di questa squadra. Che resta comunque sbilanciata nei valori offensivi, rispetto a peculiarità difensive che potrebbero rivelarsi preziose, se nell’altra metà campo le cose dovessero funzionare in modo rugginoso.

Perché non è da dar per scontato l’inserimento indolore di due realizzatori come Devin Booker e Khris Middleton, in una squadra dove le gerarchie dovrebbero essere già indirizzate. Per quanto i dubbi attuali (e chissà, anche prossimi) relativi alle defezioni per COVID, li rendano indispensabili come l’aria, a garanzia.

Jrue Holiday invece, regala al back court un potenziale difensivo indiscutibile, soprattutto guardando alle disponibilità. Il problema sarà inserire i ritardatari all’interno di un roster che, per quanto faticosamente, ha già avviato un percorso di amalgama da qualche settimana.

Partendo, tra l’altro, da due deludenti sconfitte. La prima contro una Nigeria che presenta forza e solidità, sciorinando una prova di tutto rispetto da dietro l’arco (con un ottimo 20 su 42 tentativi), capace di evidenziare i limiti anche del “reparto lunghi” a disposizione di Popovich.

Una squadra in cui spiccano due riserve dei Miami Heat, da subito dimostratesi determinati a far bene.

E se Precious Achiuwa è reduce comunque da una stagione d’esordio interessante, nel primo test di avvicinamento ai giochi ha stupito la point guard Gabe Vincent.

Visto poco in stagione regolare, ma autore di una prova da 21 punti con sei triple su otto tentativi.

In ogni modo, il fatto singolare che la squadra statunitense si presenti con un solo centro a roster come Bam Adebayo – in una competizione FIBA che è comunque più fisica della NBA odierna – resta un mistero. In questo l’aggiunta dell’ultimo minuto di Javale McGee aiuta relativamente, non certo per mestiere e capacità di stare serenamente nelle retrovie, ma per una questione di stazza.

Se pensiamo alle alternative, vengono in mente nomi non esattamente “da Team USA”, come Jarrett Allen o un improbabile Richaun Holmes.

Ma la verità è un’altra, e piuttosto amara: i grandi big men che dominano la lega, non sono convocabili, perché international players.
Come Joel Embiid, Nikola Jokic, DeAndre Ayton, Clint Capela o Karl-Anthony Towns tanto per citarne qualcuno.
La vera alternativa a Bam (che comunque sarebbe di origini nigeriane, non dimentichiamolo), è utilizzare uno small ball con KD da centro. E non è detto che possa esser vantaggioso, a prescindere dalla sua grandiosità.

Anche a livello di back court, a prescindere dalla defezione di Bradley Beal, emerge un limite importante da considerare.
A disposizione di Popovich ci sono tanti realizzatori puri – come Lillard, Tatum ed i già citati Booker e Middleton – ma la carenza di facilitatori e costruttori di gioco è evidente.
Holiday può dare più di una mano, ma stavolta gli esclusi appaiono davvero di livello, è quindi ingiustificati.
Giocatori come Trae Young, Lamelo e Lonzo Ball oppure Ja Morant avrebbero avuto un ruolo centrale, soprattutto nell’equilibrare i valori di un roster con loro davvero invincibile.

La domanda sorge spontanea, a questo punto: perché non inserire tra i papabili nazionali la nuova generazione emergente nella lega?
Ammettendo la loro disponibilità, i sopracitati con uno Zion Williamson in aggiunta, avrebbero dato una linfa più giovane al gruppo, oltre a coprire le falle apparenti all’interno del roster.

I problemi in campo

Anche perché restano annose le difficoltà nel misurarsi con le regole FIBA, soprattutto a livello di metro arbitrale. E se queste necessitano di accorgimenti personali, non sempre facili da attuare in una eventuale sfida in bilico, avere una struttura con diverse peculiarità (ed un po’ di freschezza) poteva aiutare.

Come ben sappiamo, negli ultimi anni l’idea di forzare le chiamate arbitrali cercando l’infrazione del difensore, con movimenti innaturali con lo scopo unicamente di raccogliere un fallo, è divenuto di utilizzo comune.

La NBA stessa sta provando a correre ai ripari, laddove si vede spesso e volentieri lanciare preghiere verso il canestro senza nessuna velleità, sfruttando le reazioni istintive sulle finte di tiro, ancora peggio andando a cercare le braccia o le gambe degli avversari.

Del resto, in nome della tanto ricercata efficienza, rubacchiare due o tre tiri dalla lunetta fa vincere spesso le partite. Soprattutto se si tratta di attaccanti temibili ed affidabili, capaci di produrre volumi altissimi di tiri liberi da realizzare con ottime percentuali, sfruttando le attenzioni difensive sul perimetro.

Questa abitudine non funziona con gli arbitraggi FIBA però, e non è facile denudarsi di una vera e propria skill data per scontata, per una singola competizione.

Il metro di valutazione e sanzione differente, diviene quindi il principale problema per i ragazzi di Team USA, laddove anche a livello di falli offensivi viene permesso stavolta di meno. E non è concesso il trucco di crear separazione con una mano, durante una penetrazione a canestro.

Sotto il quale, però, lo stanziamento continuo dei grandi lunghi – e quelle mazzate che i centri NBA non sono più abituati a sopportare giocando spesso lontano dal pitturato – rende decisiva quella presenza muscolare che manca tra i convocati, come detto poco sopra.

Certo, queste difficoltà di adattamento occasionale esistono anche per gli international players della lega, stelle di altre nazionali in corsa per la medaglia.

Ma dobbiamo considerare che i Doncic ed i Gobert hanno formato il loro gioco su queste basi arbitrali, per poi adattarsi agli usi e costumi della NBA, e non è cosa da poco.

Come si suol dire, si può passare rapidamente alla guida di un motorino e poi a quella di un’autovettura, ma se si apprende a star su strada partendo da una semplice bicicletta, difficilmente ci dimenticheremo come si guida.

Anche se smettiamo di utilizzarla per decenni.

Inoltre, altra evidenza riguarda l’amalgama in campo degli statunitensi, sulla quale il coaching staff sta palesemente lavorando a partire dalle prime uscite. E non a caso dopo due sconfitte sono arrivate altrettante vittorie nei test con Argentina e Spagna, con qualche miglioramento tangibile, ma si tratta comunque di test preliminari.

Se una cosa dobbiamo imparare dai risultati deludenti ottenuti con Nigeria e Australia, è che a giustificazione del già detto, il Team USA è quasi obbligato ad affidarsi a soluzioni di isolamento a difesa schierata. Principalmente per andare incontro ai talenti dei loro realizzatori.
Ma partendo dalle differenze nelle concessioni difensive del regolamento FIBA, l’assenza di un gioco di squadra causata dalla mancanza di creatori di gioco per gli altri, può generare non pochi grattacapi.

Soprattutto nell’affrontare gruppi solidi dal sistema consolidato, come gli spagnoli o i francesi, oltre agli australiani. E da questo punto di vista, la non qualificazione di Serbia e Canada al completo, è una chiara agevolazione alle velleità di successo per Lillard e compagni.

Ma ci sono comunque squadre rodate e giocatori di livello, da dover affrontare durante il cammino.

Le insidie della competizione

Partendo dal girone in cui sono inseriti Durant e compagni, appare comunque difficile pensare ad una delusione delle aspettative da parte del Team USA. Perché se l’inglorioso settimo posto “conquistato” ai Mondiali cinesi del 2019 era giustificato da un roster molto meno talentuoso di questo, i valori sproporzionati che presenta dovrebbero essere comunque sufficienti.

È vero infatti che se l’attuale “bestia nera” francese sarà contender per la vittoria del gruppo A, faticare con la Repubblica Ceca di Satoransky sarebbe ai limiti del criminale. Figuriamoci l’incrocio con l’Iran.

I problemi, semmai, potrebbero manifestarsi in seguito considerando le strutture solide di certe altre nazionali, spesso condotte da giocatori che in NBA sono ben conosciuti.

Ad esempio, la Slovenia non potrà contare su Dragic ma ha sempre e comunque Luka Doncic. Chiaramente si tratterà di un suo sostanziale hero ball, ma non è una roba tanto diversa da quello che ha mostrato negli ultimi playoff a Dallas, a voler estremizzare.

Anche ammettendo il dislivello tra i due roster a paragone, calcolando sempre le già discusse regole FIBA, i colleghi di Doncic potrebbero avere più di un vantaggio nel giocare accanto a lui, in un contesto più agevole di quanto non lo sia per gli eventuali avversari a stelle e strisce.

E questo vale anche per la Spagna della coppia immortale formata dai fratelli Gasol, dove Rubio recita la parte di mente plenipotenziaria, come mai è riuscito ad imporsi oltre Oceano.

Oppure per l’ottima Australia, notoriamente farcita di vecchi volponi smaliziati come Patty Mills e Matthew Dellavedova, con l’aggiunta di due uomini che saprebbero far male al Team USA, ognuno nel rispettivo lato di campo preferito. Perché sia dell’efficienza di materia di true shooting di Joe Ingles, che delle capacità difensive di Matisse Thybulle, abbiamo ampiamente parlato per tutta la stagione.

In tutto questo – tralasciando anche per scaramanzia la nazionale italiana, che con un Gallo in più può recitare il ruolo di outsider – i già citati francesi possono davvero puntare in alto, forti di un Gobert che difensivamente non può che essere agevolato dalle regole della competizione.
Che in linea teorica dovrebbero neutralizzare parte di quegli accorgimenti attuati contro di lui, quando il gioco si fa duro in NBA.

Lo vedremo subito all’esordio, visto che la sfida tra Francia e Team USA aprirà la competizione per entrambe, il prossimo 25 di Luglio.

Un esordio pieno di insidie proprio partendo dal già detto, principalmente per Popovich, già nell’occhio del ciclone dopo le prime uscite poco convincenti dei suoi nelle amichevoli.

Allo stesso modo in cui l’Argentina dell’infinito Luis Scola (e di un Facundo Campazzo finalmente “scoperto” anche negli States), potrebbe insediare gli spagnoli fin dal primo incontro. Tenendo fede a quella proverbiale grinta che la contraddistingue, destinata a trasformarsi spesso in imprevedibilità sul parquet.

Mentre la squadra di casa, il Giappone, può recitare comunque il ruolo del cliente poco simpatico da incontrare, forte dell’entusiasmo presunto (perché comunque gli spalti resteranno vuoti) e delle due stelle del gruppo: il più o meno inedito Yuta Watanabe attualmente in forza ai Grizzlies, e soprattutto l’ottimo Rui Hacimura dei Wizards. E non dimentichiamo la già citata Nigeria, di cui abbiamo già parlato e che per nomi è già da considerarsi sorpresa conclamata nell’inseguire il sogno medaglia.

Come avvenuto nella stagione NBA appena conclusa, tanto potrebbe pesare l’incertezza epidemiologica, con un virus subdolo e pronto a giocar brutti scherzi, magari togliendo dalla competizione giocatori chiave in squadre da loro dipendenti.

Ed alla stessa maniera, anche la corsa per l’oro cestistico potrebbe rivelar qualche sorpresa sorprendente.

Anche se – nonostante tutto – se questa dovesse non finire al collo del Team USA, ancora una volta diremmo all’unisono che hanno solo potuta perderla da soli.

Che malgrado dubbi e difficoltà, da soli hanno tutte le carte in regola per correre. Come da copione.

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Davide Torelli
Nato a Montevarchi (Toscana), all' età di sette anni scopre Magic vs Michael e le Nba Finals, prima di venir rapito dai guizzi di Reign Man e giurare fedeltà eterna al basket NBA. Nel frattempo combina di tutto - scrivendo di tutto - restando comunque incensurato. Fonda il canale Youtube BIG 3 (ex NBA Week), e scrive "So Nineties, il decennio dorato dell'NBA" edito da Edizioni Ultra.