Tre cose che ci hanno stupito in questo inizio di stagione

osservazioni NBA
Copertina di Fra Villa

Il 19 ottobre, con Milwaukee Bucks – Brooklyn Nets, la stagione regolare della NBA è iniziata. Tirare le somme dopo una settimana di gioco è difficile, tendenzioso e, fondamentalmente, sbagliato.

Possiamo dire con certezza che i Bucks si ripeteranno quest’anno? Siamo sicuri che i Lakers visti in questi giorni non saranno pretendenti al titolo a fine anno? Le prime prestazioni di Golden State Warriors e Chicago Bulls ci fanno dire con assoluta certezza che saranno anche loro della partita?

Gli interrogativi, potenzialmente, sono infiniti. Potremmo sbizzarrirci, ci siamo già cimentati in previsioni azzardate nei giorni scorsi, ma è chiaro che una settimana di regular season può dire tutto e può dire niente.

A tal proposito, Davide Quadrelli, Andrea Snaidero e Matteo Berta hanno provato ad estrapolare da questa Week 1 tre aspetti che ci hanno sorpreso; in particolare, Davide parlerà di come i Chicago Bulls abbiano “scoperto” la difesa grazie a Lonzo Ball, Andrea di come Curry sia la personificazione del termine gravity e Matteo del fatto che Ty Lue sia riuscito a rendere utile l’apporto di Eric Bledsoe.

Dalle loro considerazioni sono uscite chiavi di lettura non banali, che possono aiutare a togliere i dubbi che avevamo e farli diventare certezze oppure fare il contrario, trasformando i presunti capisaldi che avevamo in incertezze.

Solo il tempo ed il campo potranno dirci se il nostro stupore è giustificato o meno.

Chicago Bulls, Lonzo Ball e la difesa ritrovata

Per parlare dei nuovi Chicago Bulls di Zach LaVine, DeMar DeRozan e Lonzo Ball bisogna fare un piccolo – grande – salto nel passato e citare un fatto avvenuto poco dopo la vittoria del primo anello da parte della franchigia dell’Illinois.

Ottobre 1991, i campioni uscenti (e, spoiler, regnanti) affrontano i Denver Nuggets in un preseason match al Superdome di New Orleans. La partita, in sé e per sé, conta poco o nulla, quello che vale sono le dichiarazioni fatte da Horace Grant e Michael Jordan alla fine della stessa. Fino a qualche mese prima, Chicago era la città dei Bears, non certo dei Bulls. La vittoria del titolo NBA fa “scoppiare” la febbre per la pallacanestro e porta i due a fare certe dichiarazioni che cambieranno permanentemente la mentalità sportiva della città negli anni a venire.

Sostanzialmente in coro, Jordan e Grant affermano che, con la vittoria dei Bulls alle Finals NBA, “Chicago è città che vive per lo sport e, gradualmente, sta diventando una Bulls Town, così come in passato è stata una Bears Town, una Hawks Town ed una Sox Town”. Dunque, in città c’è una nuova mentalità ed è quella vincente mostrata da Jordan al Chicago Stadium.

Fast Forward di trentanni: i Chicago Bulls tornano a giocare a New Orleans nel mese di ottobre…e scoprono che dal nuovo trio LaVine-DeRozan-Ball può nascere qualcosa di – tatticamente – molto interessante e, soprattutto, (ri)scoprono il piacere di difendere.

É vero, la prima settimana di regular season dei Bulls non è stata la più impegnativa della storia, hanno affrontato due volte i Detroit Pistons (senza Cade Cunningham) ed una volta i New Orleans Pelicans (senza Zion Williamson). Però questi tre incontri ci sono serviti per toglierci alcuni dubbi.

Innanzitutto, dopo anni di “dimenticatoio”, anche Chicago – con le firme di Ball, DeRozan e Caruso – è tornata sul radar NBA per quanto riguarda appeal ed entusiasmo dei tifosi. In particolare, il punto in cui si è capito che la città, i tifosi, sono pronti a riabbracciare quella Bulls Town chiamata da Jordan e Grant, è stato il picco di entusiasmo avuto al decimo assist di Zo contro i Pelicans, alley oop per Caruso e prima tripla doppia in maglia Bulls (la prima di una guardia dal 2016).

In secondo luogo, pur essendo solo l’inizio e pur parlando di regular season, le aggiunte (costose, bisogna dirlo) di Lonzo Ball e Alex Caruso, unite allo stile ed al pragmatismo di Billy Donovan, sembrerebbero portare la franchigia fuori dai confini del suo atavico problema, ossia la difesa.
Fin dalla preseason, i due ex Lakers hanno raddoppiato, hanno sporcato linee di passaggio, hanno stoppato, hanno difeso su più ruoli e, in definitiva, hanno alzato la barra della difesa, spingendo i compagni a fare lo stesso – o, comunque, del loro meglio.

Terzo dubbio che volevamo (e dovevamo) toglierci riguardava uno dei problemi che ha afflitto i Chicago Bulls delle scorse stagioni: se LaVine non riesce a creare, cosa può fare l’attacco?
Le firme di DeMar DeRozan e Lonzo Ball vanno in questa direzione. Il playbook di Coach Donovan non è la massima espressione dell’armonia nella metà campo offensiva e non si possono giocare 48 minuti di heroball di LaVine, quindi si è deciso di affrontare il problema affidando l’attacco a tre uomini, dividendo i possessi, giocando un basket positionless, utilizzando DeRozan come leader della second unit per alcuni minuti in modo da massimizzare l’apporto di Caruso&Co. (per la verità, ancora troppo poco la panca di Chicago).

In più, l’affidare la creazione a metà campo a DeRozan e lasciare carta bianca a LaVine per prendersi isolamenti, triple e penetrazioni, ha coperto una lacuna di Ball andando a esaltare i suoi punti di forza. Ad esempio, con DDR handler, Lonzo gioca spesso da bloccante, sfruttando il suo fisico e creando le condizioni per aprirsi sull’arco dei tre punti e giocare il pick and pop. Oppure, con un penetra e scarica di DeRozan, viene liberato per il tiro da tre.

Infine, gli appassionati ed i tifosi – mi metto anche io in questa categoria – si sono tolti la soddisfazione di vedere una guardia saltare dritto e composto e stoppare il centro avversario come se fosse il rim protector della squadra, come nel miglior remake di “Bron vs. Splitter”. Inutile aggiungere che quella guardia era Zo.

Cerco un centro di gravità permanente (ed è Stephen Curry)

Quasi assist per Davide che, dopo aver parlato di Lonzo, mi invoglia a parlare del fratello.

Perché se c’è una cosa che mi ha colpito di questo inizio stagione direi che è LaMelo: la sua eccelsa prestazione nella gara di apertura e, soprattutto, il suo nuovo contratto di sponsorizzazione con la Stabilo, per cui è arrivato al palazzo vestito da evidenziatore.

Preferisco però concentrarmi su una squadra che poteva draftarlo l’anno scorso, i Golden State Warriors e il loro beautiful game che non accenna a sbiadire col passare degli anni e dei giocatori.

Non facciamo l’errore di considerare questa stagione un’annata in cui l’unico obiettivo e speranza è il rientro messianico di Klay Thompson: finché l’altro Splash Brother è in campo, Golden State è ostica per chiunque. Le prestazioni nelle prime due gare di stagione di Steph hanno sottolineato il punto: 21+10+10 – tirando male – contro i Lakers, e 45+10 rimbalzi – tirando benissimo – contro i cugini Clippers.

Non è da tutti avere il miglior tiratore della storia a roster, ma non è nemmeno da tutti avere un attacco che non si accontenta di tale potenza di fuoco ma costruisce sulle abilità balistiche del #30.

Proprio la gara contro i Clippers ha mostrato un paio di esecuzioni degne del miglior gioco di Golden State, fatto di movimenti di uomini e palla, blocchi lontano dall’azione e, soprattutto, sfruttamento della gravità che Curry genera per le difese avversarie.

Il concetto di gravità nel basket è lo stesso che nella vita reale: la capacità che un giocatore ha di attrarre più difensori verso di sé, sbilanciando così le difese e creando spazio per gli altri.

Un giocatore che ha una forte gravità è un giocatore che è egualmente efficace con o senza palla in mano. Se poi tal giocatore blocca per liberare altri compagni di squadra, la difesa è talmente confusa da colpirsi da sola.

Qui c’è tutto l’attacco che ha reso Golden State una dinastia negli ultimi anni: palla in post medio a Green, Curry blocca per Moody mentre Bjelica fa lo stesso per Wiggins. Draymond ha, in quel momento, 2 tiratori smarcati da servire sul lato forte o debole.

Palla a Moody, che non la controlla benissimo e fa perdere il vantaggio acquisito dal blocco di Curry, dato che Kennard rientra a marcarlo stretto. Ed ecco che la suddetta gravità entra in gioco: Morris non può staccarsi da Curry in angolo per paura del suo tiro (peraltro, la tripla dall’angolo è statisticamente il miglior tiro possibile da prendere su un campo da basket: vale 3 punti ma la distanza tra linea e canestro è minore che in punta), Moody può penetrare nel corridoio libero, George ruota lasciando libero Green, Bledsoe ruota per coprire Draymond, Wiggins è liberissimo. Bravo Moody a pescarlo con un passaggio difficile, ma il mix blocchi lontano dalla palla + gravità di Curry crea un vantaggio che nemmeno le migliori difese possono azzerare.

Il bel giuoco di Golden State prescinde dai giocatori in campo: anche le riserve seguono i dettami offensivi di Kerr e creano tiri facili per compagni aperti. Qui il finto blocco di Poole sbilancia la difesa, poi bravissimo Otto Porter Jr. a trovarlo nella stessa posizione di post medio dove stava Green prima.

Nulla di nuovo per Golden State, ma la continuità sa essere sorprendente.

Eric Bledsoe usato come T-Mann

L’arrivo di Eric Bledsoe ai Los Angeles Clippers è stato accompagnato da tutti i dubbi che si porta dietro – da sempre – l’ex giocatore di Pelicans e Bucks.

I Clippers avevano bisogno di sostituire la pressione al ferro che Kawhi poteva mettere e avevano bisogno di un giocatore che assicurasse la sua presenza durante la stagione, riducendo la probabilità di infortuni.

I problemi nel gioco di Bledsoe li conosciamo tutti, ed è qui che entra in gioco l’utilizzo che i Clippers stanno facendo di lui.

Il primo punto focale è chiaramente – è stato preso per questo – la gestione della early offense: Bledsoe è un giocatore che corre ed a cui piace correre, un giocatore che può attaccare il ferro in contropiede o trovare i compagni liberi sul perimetro dopo una cattiva transizione difensiva degli avversari.

Il vero rompicapo da risolvere nasce, però, quando bisogna attaccare a metà campo. Per provare a risolvere la situazione, la mossa Tyronn Lue sulla sua scacchiera tattica è stata quella di utilizzare Bledsoe come i Nets hanno utilizzato Bruce Brown lo scorso anno. Anzi, ancora meglio, come i Clippers hanno utilizzato Terance Mann.

Quando non ha la palla in mano, infatti, a Bledsoe è spesso richiesto di portare blocchi sul palleggiatore, principalmente Paul George, in modo da sfruttare il suo finishing al ferro e le sue abilità di passatore sullo short-roll.

Questa situazione permettere ai Clippers di nascondere i problemi di spacing che Bledsoe crea quando non ha la palla in mano, rendendolo utile e coinvolgendolo per costringere la difesa a collassare su di lui.

Quando è sul lato debole, invece, Bledsoe viene coinvolto con l’obiettivo di attaccare il ferro e generare un’altra situazione di penetra e scarica, stile di gioco che l’anno scorso ha consentito ai Clippers di chiudere con la miglior percentuale della lega dalla linea dei tre punti. Dunque, viene reso attivo nonostante il fatto che la sua scarsa pericolosità al tiro è ampiamente conosciuta da tutta la lega.

La più grande differenza con il Mann dello scorso anno la troviamo nelle situazioni nelle quali gli viene chiesto di gestire l’attacco a metà campo iniziando dal palleggio, magari giocando un pick&roll, mentre il resto della squadra gioca qualche schema per liberare Paul George e farlo ricevere in maniera dinamica.

Tutto ciò si sta traducendo in 17 punti e 4.5 assist di media a partita. Certo, con le solite percentuali Bledsoniane, ma con un ottimo flow del gioco non interrotto dal palleggiare infinito che troppo spesso abbiamo visto ai tempi dei Bucks.

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Davide Quadrelli
Tifo Lakers e Cantù, tifo Valentino Rossi e Kimi Raikkonen, tifo Juventus e Patriots. Pare che io scriva per True Shooting.
Andrea Snaidero
''Esperto NBA", bravissimo podcaster, usa Linux Mint e ha il calcola-pizza tra i preferiti, una persona senza difetti. Co-conduce insieme ad Andrea Bandiziol "The ANDone Podcast.
Matteo Berta
Matteo, studente di ingegneria informatica a Torino. Si è innamorato dei Clippers nello stesso modo di tanti altri, vedere Chris Paul che alza il pallone a Blake Griffin a 12 anni era uno spettacolo. Crescendo si è innamorato di Trae Young e delle prospettive di questi Atlanta Hawks.