I 3(+1) GM che si meritano il carbone dalla Befana

Carbone Befana NBA
Copertina di Sebastiano Barban

Con la proverbiale “ultima danza” delle festività religiose invernali, guardando in ottica NBA è nuovamente tempo di bilanci. Soprattutto in chiave trade deadline, prevista più o meno ad un mese di distanza dal “giorno della Befana”. La stessa figura dalla quale – seguendo la tradizione che l’accompagna – è lecito attendersi dolciumi e regali per premio, oppure il temutissimo carbone di punizione.

Il terrore di ogni “bambino cattivo” che si rispetti, spesso portato ad interrogarsi sul destino del contenuto della sua calza; se le azioni portate a compimento nell’ultimo anno siano stato meritevoli o meno di tanta umiliazione. Una cosa che, nell’infanzia di ognuno di noi, probabilmente non è mai successa. E che probabilmente serve ad instaurare una primordiale autocritica nei piccoli, passando attraverso il terrore verso il contrappasso divino. Ma non è questo il tema.

Tornando infatti al “tempo di bilanci in NBA”, l’occasione è ghiotta per analizzare l’operato dei General Manager (o meglio Lead Executive) delle trenta franchigie attive nella lega. Ed in base alle costruzioni dei roster, capire chi si meriterebbe la penalità da quella vecchia signora dal naso butterato, che dovrebbe volar in cielo a cavallo di una scopa.

Oltretutto, dalle sembianze acquisite nella cover sovrastante, è decisamente più brutta di quanto ricordato dall’immaginario collettivo, direi.

Proprio perché a partire da oggi, c’è poco più di un mese per imbastire operazioni di correzione e rimediare ai disastri fatti, in vista della deadline (e dei conseguenti buyout eventuali). Ne abbiamo scelti tre (più uno, bonus). Naturalmente sul banco degli imputati per le prestazioni deludenti offerte dalle rispettive squadre, in questa prima parte di regular season.

Rob Pelinka, Los Angeles Lakers

Impossibile non puntare il dito verso la gestione estiva del roster gialloviola, anche se i più accusano direttamente LeBron James, ormai divenuto per tutti “il vero General Manager della squadra”. Ed ha senso soffermarsi subito sulla questione.

Che il nativo di Akron abbia spesso e volentieri caldeggiato i movimenti di mercato delle franchigie di militanza, è un segreto di Pulcinella. Ma per certi versi l’assenso o meno della propria star, prima di muovere un chiunque a roster, è questione annosa e visibile un po’ ovunque. Certo, la sua presunta attività all’interno dell’agenzia Klutch Sports (una delle più influenti nel panorama) rende ogni illazione ancor più con diritto di cittadinanza. E bisogna ammettere che a fronte di ogni rumors uscito a riguardo negli ultimi anni, LeBron non si è mai speso troppo a smentire, anzi.

Guardando ai recenti episodi, la rivendicazione del “convincimento” di Russell Westbrook, oppure il tentativo fallito con Damian Lillard, ne rappresentano ulteriore conferma.
Detto questo, calcolando il disastro (concettuale, ancor prima che tattico) operato dai Lakers in offseason, Pelinka si merita il carbone in ogni caso. Sia che il suo ruolo sia quello di “marionetta di James”, sia che in realtà decida seriamente lui cosa è meglio per i gialloviola, magari tenuto conto del parere della sua star.

Nella fattispecie, ammettendo che la principale causa dell’uscita al primo turno dello scorso anno, è da ricercarsi negli infortuni che hanno tartassato lo stesso LeBron ed Anthony Davis, le ragioni per cui il gruppo è stato completamente destrutturato e (mal) ricostruito restano oscure. Ed il peccato originale non può che essere la scelta di puntare sulla terza stella, selezionando quella naturalmente meno accompagnabile con la coppia di punta: Russell Westbrook.

Tutti i limiti dell’ex giocatore di Thunder, Rockets e Wizards si stanno manifestando per come previsto, e rappresentano minus pesanti offensivamente, in materia di shooting selection e decision making.
Pensare che la principale ragione della sua firma era più o meno “permettere a James di aver meno la palla in mano, di non dover creare sempre dal palleggio e riposarsi un po’ di più”, non merita commenti ulteriori in accompagnamento. I numerosi video di bloopers che circolano in rete, non rendono neanche giustizia al quantitativo di pessime scelte e possessi gettati alle ortiche che sta collezionando. A prescindere dalle triple doppie a referto.

E come se la sua semplice aggregazione non bastasse, a livello di rinnovi si preferisce investire sul giovane Talen Horton-Tucker lasciando Alex Caruso scegliere un approdo differente (Chicago). Perdendo così una delle chiavi del backcourt difensivo dell’ultima stagione, insieme a Kentavious Caldwell-Pope, inserito con Kuzma e Harrell tra le contropartite da girare a Washington per Westbrook.

Insomma non solo Pelinka si è caricato il mastodontico contratto di Russ limitando non poco i movimenti a completamento del gruppo, ma ha disfatto parte dell’ossatura difensiva di squadra. Per acquisire un elemento disfunzionale in entrambi i lati del campo.

A partire da questo, cercar di tappare le falle evidenti con disponibilità economiche limitate e puntando su elementi a fine corsa (come i vari Anthony, Ariza, Howard, Jordan), appare l’unica strada percorribile. E se si eccettua la presa di Malik Monk, difficile trovar qualcosa di lontanamente azzeccata. Anche perché tra infortuni e protocolli, il gruppo non è ancora riuscito a scendere in campo al completo.

Ma attenzione, stavolta le assenze forzate non possono rappresentare una scusa, anche quella pesante di Anthony Davis. Che in avvio di stagione ha presentato autentiche involuzioni sia a livello di percentuali offensive, che un preoccupante disinteresse all’altra fase del gioco. Quella in cui teoricamente avrebbe dovuto guidare la squadra, in quanto difensore d’élite. Come gli abbiamo già visto fare, portando i Lakers al titolo nel 2020.

I parziali incassati, le sconfitte impreviste e le rimonte accusate anche da avversari di umile estrazione, non lasciano dubbi ulteriori: Pelinka deve riscattarsi necessariamente entro la deadline, perché così i Lakers rischiano davvero un tracollo memorabile.

Le possibilità di manovra – eccezion fatta per eventuali buyout – appaiono comunque limitate.
Mettere sul mercato Westbrook equivale ad un ammissione di incompetenza, ed appare complicato trovar qualcuno disposto ad accollarsi i tanti oneri che porta con sé (al netto di valori in caduta vertiginosa). Ma appare indiscutibile che qualche sondaggio in giro è già stato fatto, e tanto può dipendere dalla funzionalità della contropartita. A patto di non pretendere troppo rifiutando ogni eventuale timido approccio, alla maniera di Philadelphia con Simmons (ma vedremo dopo).

Dall’altra parte, liberato un posto a roster con la cessione ai Cavs di Rondo, il pacchetto più appetibile da proporre in giro riguarda proprio Horton-Tucker (troppo acerbo per poter davvero garantire sostegno ai senatori), un Kendrick Nunn che ancora non ha esordito, e presumibilmente un nome a scelta tra Bazemore ed Ellington. Tutto sommato sacrificabili senza versar particolari lacrime.
Capire cosa possa arrivare di tangibile per un gruppo di giocatori simile, resta di difficile valutazione.

A livello di rumors si parla di interessamenti gialloviola per Jerami Grant e Myles Turner, che potrebbero supportare Davis ed allargare un minimo il campo. Contemporaneamente servirebbero difensori perimetrali, probabilmente un portatore di palla (o un creatore dal palleggio alternativo a James), almeno un ulteriore 3 & D da accompagnare ad Ariza.

Insomma, un bel po’ di roba che appare veramente eccessivo sperar che si aggiunga in tempo per salvare una stagione in cui l’obiettivo era il titolo. Ed ora come ora, appare veramente lontano.
Nonostante le prestazioni clamorose che sta sfornando un immortale James che – al compimento del trentasettesimo anno di età – non sembra aver voglia di tirarsi indietro, pur dovendo constatare che neanche la sua versione migliore possibile è sufficiente per trascinare la squadra al successo.

David Griffin, New Orleans Pelicans

Non sta andando niente bene a New Orleans, e la Befana non può che lasciar deluso il povero David Griffin, vista la direzione di una offseason che seguiva ad una stagione con qualche barlume di speranza.

Certo, imperativo era chiudere con la conduzione Van Gundy e liberarsi dei pessimi fit rappresentati da Bledsoe ed Adams. Non esattamente ideali per esaltare uno Zion Williamson atteso all’annata della consacrazione. Ma a prescindere dalle buone intenzioni, le cose sono sfuggite di mano.

Però la gestione della prima scelta assoluta del Draft 2019, è una cosa che si muove a prescindere dalle scelte operate da Griffin, anche se possono determinarne umori e prospettive. Perché non è da escludere che il giocatore possa decidere di guardar altrove, in vista del possibile prolungamento del rookie contract, vanificando ogni sogno di risollevare l’appeal di una franchigia che di chances per acquisire popolarità ne ha già sprecate abbastanza.

Tradotto: se le volontà in uscita di Anthony Davis erano state tamponate con un buon pacchetto di giovani in cambio, lasciar per la sua strada anche Williamson suonerebbe come una pietra tombale sopra ogni prospettiva positiva ipotetica. Addirittura rendendo più sensati gli echi di relocation che si percepiscono all’orizzonte, visto il disinteresse crescente del pubblico della Louisiana.

Anche perché – a proposito del famoso young core gialloviola ottenuto per AD – l’apparente pedina ideale da schierare a fianco di Zion è stata insensatamente spedita a Chicago in una sign ad trade estiva. Probabilmente non facendo piacere al diretto interessato, che si sarebbe frantumato un piede di lì a poco (facendosi rivedere raramente, e con una forma decisamente indietro alle aspettative, prima di un’ennesima ricaduta ed attirando critiche feroci).

Le peculiarità di Lonzo Ball – sia per gestione delle transizioni, che per capacità difensive da far coincidere con miglioramenti balistici progressivi – si sposavano perfettamente con quello che sembrava essere il gioco ideale di una squadra che, tra gli altri, poteva lanciar con più continuità anche un lungo agile come Jaxson Hayes. Sicuramente meno incline ad intasar il pitturato rispetto allo Steven Adams che fu. Che in ogni caso, accasandosi a Memphis, ha lasciato il posto ad un Valančiūnas più in grado di allargare il campo, ma per il quale la convivenza con Williamson è tutta da immaginare. Anche perché ad oggi stiamo ancora aspettando di vedere quest’ultimo in campo, e chissà quando succederà.

Insomma, le pessime prospettive e la deriva dei Pelicans in avvio di stagione è stata già ben analizzata su queste pagine, e l’esigenza momentanea non è tanto capacitarsi del quantitativo di carbone destinato a Griffin. Ma capire cosa inventarsi nel brevissimo termine per risollevare la situazione.

Ammettiamo che ad un certo punto Williamson rientri – anche se è prevedibile una gestione centellinata del ritorno, simile a quella vista nella sua prima stagione – e che nei minuti in campo parta con la palla in mano. Sia perché l’esperimento del “point Zion” dello scorso anno non era a tratti dispiaciuto, sia perché l’alternativa è insistere con Devonte’ Graham come point guard. E non ci sono grandi alternative.

Calcolando come intoccabili Brandon Ingram (che sta disputando la sua onesta stagione, pur nel disinteresse generale) e Jonas Valančiūnas , i principali pezzi interessanti rispondono a nomi salvabili (o in crescita) fino a questo momento di stagione.

Uno di questi è Josh Hart, che con l’aumento del minutaggio medio, sta migliorando nelle sue cifre offensive e quantomeno appare tra i più determinati anche nella metà campo difensiva. Con tutti i limiti di continuità che gli si possono riconoscere. Gli altri due possono essere proprio Hayes (per futuribilità e poco spazio) e Nickeil Alexander-Walker. Altra guardia, quest’ultima, in crescente miglioramento statistico.
Tra l’altro il buon impatto anche difensivo del rookie Herbert Jones – altro centro del lotto – potrebbe render Jaxson più sacrificabile con qualche rimpianto eventuale in meno, per quanto le sue potenzialità di crescita siano sotto gli occhi di tutti.

Portare a roster un regista capace di creare per i compagni con la palla in mano, appare come imperativo. E se mai si decidesse di sacrificare Temple e Satoranský, la principale operazione di mercato estiva risulterebbe ufficialmente un fallimento.

Calcolando che partendo dalle volontà di Lonzo, si poteva seriamente puntare ad ottenere di più dalla perdita di un giocatore simile. Ma nonostante tutto, riuscendo e reintegrare uno Zion sereno e finalmente in forma (ammesso che questa sia pure in grado di mantenerla), il gruppo guidato da coach Willie Green potrebbe improvvisamente svoltare in positivo. E qualche timido segnale negli ultimi periodi si è visto, in particolare con l’assenza di Ingram preda di fastidi fisici.

In tutto questo proprio coach Green appare difficilmente valutabile, calcolando la sua prima volta da capo allenatore, ed in un contesto sulla carta troppo dipendente dall’apporto di un giocatore ancora assente. Che con un paio di accorgimenti e la sua presenza, può davvero cambiare le prospettive.

Neil Olshey, Portland Trail Blazers

Sarebbe sufficiente dar un’occhiata alla coda della classifica ad ovest, per capire che dopo New Orleans la nostra Befana non può che direzionarsi in Oregon. I Portland Trail Blazers sono in caduta libera, e la ragione principale riguarda il non aver capito che fare della squadra in estate. Se era giunto il tempo di far tabula rasa e ripartire o meno, a prescindere dalle volontà poco chiare di Damian Lillard.

Il problema per la nostra Befana però, è che il destinatario del discreto pacco di carbone in consegna non siede più nella sua scrivania. Perché molto prima di lei, la franchigia ha deciso di dar il benservito a Neil Olshey, tra l’altro colpito da accuse poco edificanti sull’onda dello scandalo Sarver. E principalmente sollevato a causa di queste.

Ed il punto è che il vero sostituto non è neanche facile da trovare, a prescindere dalla carica momentaneamente ricoperta ad interim da Joe Cronin. Che se le cose rimangono invariate, avrà l’onere di capire come muoversi in vista della deadline (o più colpevolmente, restare immobile).

Anche perché secondo l’oracolo Wojnarowski, il giocatore più importante nella storia della franchigia (aka Dame Dolla), potrebbe rappresentare la zavorra per cui in pochi vorrebbero occupare una posizione che scotta.

Secondo l’insider di ESPN infatti, la ragione del suo tira e molla tra i rumors che lo vorrebbero scontento e voglioso di altre sfide, e le sue dichiarazioni periodiche di amore eterno per Portland, starebbe nell’idea di ottenere un’estensione biennale di 107 milioni di dollari in estate. Una roba che potrebbe renderlo incedibile, e che ulteriormente saturerebbe il cap impedendo al GM entrante di operare mosse migliorative. Oltretutto, se ottenesse il sensibile rabbocco, Lillard si legherebbe ai Blazers fino ai 36 anni di età, e gli standard che sta mantenendo in questa stagione lascerebbero qualche dubbio in più.

Per medie e percentuali – ma soprattutto per impatto in campo – Dame sta probabilmente disputando la peggior stagione in carriera. E anche lì non si capisce se si tratta di svogliatezza causata dal calo di motivazioni, o da una fisiologica uscita dal prime. Considerando che ha compiuto 31 anni e sta disputando la decima stagione in carriera.

Quindi, da un certo punto di vista il buon Olshey avrebbe schivato un bel proiettile “facendosi sollevare” a questo punto, oltre che il carbone della Befana. Pur essendo stato la sostanziale causa di tutto, scegliendo di muoversi quasi niente dopo l’uscita al primo turno con i Nuggets nella passata edizione dei playoff. Quando dopo la discutibile trade tra Gary Trent Jr. e Norman Powell di metà stagione, ha sostanzialmente aggregato giocatori di contorno come Larry Nance Jr. (sacrificando ancora scelte, come già avvenuto per Covington), Cody Zeller e Ben McLemore. Veramente molto poco per un progetto potenzialmente ambizioso.

Anche in panchina, ammettendo lo scontento di Lillard rispetto a Stotts, la scelta dell’esordiente Chauncey Billups è apparsa poco convincente. A prescindere dagli apprezzamenti pubblici verso l’ex campione dei Pistons, riconosciuto da subito come gran motivatore.Ma poi, quando c’è da scendere in campo, oltre ai limiti tecnici ci si sono messi anche gli infortuni.

Ed in particolare la sfortuna occorsa a C.J. McCollum, che un bel giorno ha scoperto di aver un polmone semi collassato per un problema respiratorio, e che si è ritrovato fuori a tempo indeterminato. Altro uomo che Olshey non ha trovato il coraggio di scambiare, e che adesso vede decisamente ridimensionate le sue quotazioni. Un po’ come Jusuf Nurkić, che a fine stagione aveva chiaramente lasciato intendere che non sarebbe tornato a Portland in questa stagione, ma che per una serie di ragioni è ancora il centro titolare. Con tutti i suoi limiti.

Insomma, a voler cercare qualche lato positivo in questo avvio, le prestazioni dei giovani Anfernee Simons e Nassir Little (quest’ultimo fondamentale per limitare le carenze difensive di squadra) aprono qualche spiraglio futuro.

Discorso simile per il redivivo Dennis Smith Jr. che, finito fuori dai radar tra troppo tempo, complici le assenze ha visto aumentare il proprio minutaggio nell’ultimo periodo. Talvolta rispondendo benino. Ed anche lui – nona scelta assoluta di Dallas nel 2017 – avrebbe appena 24 anni.

Paradossalmente, cedere Lillard adesso con McCollum fuori dal mercato per cause di forza maggiore, potrebbe essere mossa salvifica per il futuro di Portland. Può sembrare una bestemmia calcolandone l’importanza, ma favorirebbe una ricostruzione che deve necessariamente avviarsi con una azione traumatica. Anche perché a questo punto, pur con una classifica corta, è più conveniente puntare ad una scelta da lottery che forzare un play-in con poche possibilità di successo.

Ma se il cordone ombelicale con Dame risultasse troppo doloroso da recidere (da ambo i lati, evidentemente), con i vari Covington, Powell, Nurkić e volendo anche Nance, si può sperare di scozzare un po’ le carte. E senza toccare i giovani a roster. Il problema è che difficilmente Cronin (o chi per lui) otterrebbe qualcosa di rivoluzionario.

Insomma, ovunque si trovi Olshey, è cosa buona e giusta che il carbone a lui destinato gli venga recapitato, almeno per posta. Perché probabilmente avrebbe preferito restar in carico, ma con le scelte operate di recente, ha comunque lasciato una discreta terra bruciata in quel dell’Oregon.

Bonus: Daryl Morey, Philadelphia 76ers

Onestamente, a prescindere da quanto potrei aver scritto o detto, non mi sarei immaginato che “l’affaire Ben Simmons” risultasse ancora irrisolto, a questo punto della stagione. La situazione appariva già paradossale con la sua messa fuori squadra dopo un paio di allenamenti, ma il fatto che si mantenga sospesa nel nulla, assume toni inquietanti ogni giorno di più.

Almeno in apparenza.

Ora, sappiamo perfettamente che a Philadelphia chi siede dietro la scrivania del GM è Elton Brand, ma non ci sono dubbi che questa situazione sia stata maneggiata da subito dal President of Basketball Operations Daryl Morey.

E se rimettiamo insieme tutti i pezzi della storia, la nostra Befana potrebbe tranquillamente pensare di chiudere il suo viaggio annuale con una fermata extra. Sia per come Simmons è divenuto pubblicamente il capro espiatorio del deludente epilogo della stagione passata, senza paracadute. Sia perché in questi mesi di offerte ne sono arrivate tante, almeno ascoltando i rumors usciti. Ma nessuna di queste ha mai accontentato Morey, che apparentemente voleva di più, sempre di più, anche rispetto a pacchetti funzionali per quella che resta (record alla mano) una buona squadra.

Che, a prescindere dalla “scoperta” Maxey, sta disputando una stagione più che dignitosa con uno spot chiave vacante. Incredibile calcolando che tutta la struttura imbastita lo scorso anno, si basava sul tandem Simmons/Embiid. E che gli arrivi estivi di Drummond (per coprire le spalle di Joel) e Niang (altro tiratore utile da piazzare sul perimetro), non hanno aggiunto niente di tangibilmente importante.

In ogni caso, come dicevamo in apertura, la nostra Befana è molto in linea con la funziona pedagogica che la sua figura rappresenta per metafora. Quindi, se da una parte Morey potrebbe apparire punibile per le posizioni inamovibili assunte nel braccio di ferro con il suo giocatore, dall’altra potrebbe farla ricredere.

Perché nella NBA attuale – vittima dello star power e per la quale è divenuto un mantra ammettere che “è una lega di giocatori” – il suo puntar piedi potrebbe assumere toni esemplificativi. Addirittura, far giurisprudenza. Simmons resta un giocatore dall’alta stima di sé stesso, non esattamente incline a migliorarsi, che dapprima dà buca al training campo per poi far la comparsata improvvisa. E scendere in campo ad allenarsi con i compagni in modo svogliato, con lo smartphone visibilmente in tasca. Salvo poi appellarsi allo stress ed a problemi di salute mentale, una volta punito.

Insomma, sempre trattando tutto con il beneficio del dubbio, ci sono abbastanza argomentazioni per definirlo quantomeno “eccessivamente bizzoso”. Praticando atteggiamenti che sembrano puntare a mettere la franchigia ad un angolo: impossibile reintegrarlo senza passare da disperati, costretti ad accontentarsi di qualsiasi contropartita per “salvare il salvabile”.

Quella di Daryl Morey quindi, sotto questo punto di vista potrebbe quasi apparire come una lotta solitaria contro una tendenza generalizzata, non certo apprezzabile.
Continuando quindi a rifiutare proposte di scambio a suo avviso poco convincenti, piuttosto lasciando Simmons (ed il suo agente Rich Paul) al palo. Sembra voler decider lui – giustamente, essendo colui che ne paga il contratto – come e quando liberarsene, senza doversi sentire “fregato” dalle circostanze messe in moto. Potremmo quindi vederlo quasi come un impavido e solitario oppositore ad una deriva antipatica, che sta relegando gli Executive alla mercé delle proprie superstar.

Insomma, provando a sbrogliare una situazione sempre più ingarbugliata: siamo sicuri che Morey meriti il carbone in questo momento? O forse è il caso di rimandarlo, calcolando a bocce ferme come sarà riuscito a risolvere la situazione, quando possibile?

La nostra Befana, se lo sta chiedendo, indecisa sul da farsi.

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Davide Torelli
Nato a Montevarchi (Toscana), all' età di sette anni scopre Magic vs Michael e le Nba Finals, prima di venir rapito dai guizzi di Reign Man e giurare fedeltà eterna al basket NBA. Nel frattempo combina di tutto - scrivendo di tutto - restando comunque incensurato. Fonda il canale Youtube BIG 3 (ex NBA Week), e scrive "So Nineties, il decennio dorato dell'NBA" edito da Edizioni Ultra.